Italo Testa
Le tracce mimetiche e il dio dei dettagli
Nella Poetica Aristotele afferma che la poesia avrebbe la sua causa naturale nella capacità imitativa[1]. Sebbene la tendenza mimetica compenetri l’intera vita sociale dell’uomo, è solo nell’espressione poetica che essa si esplicherebbe di per sé[2].
È possibile dunque guardare alla poesia nella prospettiva di un’indagine sulla natura umana? E il problema della natura mimetica dell’uomo ha lasciato traccia nel pensiero dei poeti? In tale direzione ho scelto di confrontarmi con un caso esemplare: Horae canonicae, una raccolta di Wystan Hugh Auden. Nei suoi scritti poetici e saggistici Auden si è sforzato costantemente di formulare in modo espressivo delle diagnosi dell’epoca contemporanea – the age of anxiety, secondo il titolo di uno dei suoi poemi più noti[3] – sullo sfondo di una visione della natura e del destino storico dell’uomo come individuo e come specie. E Horae canonicae è il testo di Auden che tocca nel modo più intenso e drammatico la condizione mimetica dell’uomo. Auden, che pure è stato nel Novecento forse il più stupefacente manipolatore di forme poetiche, ha consapevolmente elaborato una poesia allegorica, che vuole farsi veicolo di alcuni significati universali sulla condizione umana. In tal senso, nel saggio Mimesis and allegory scriveva:
Art is not metaphysics any more that it is conduct, and the artist is usually unwise to insist too directly in his art upon his beliefs; but without an adequate and conscious metaphysics in the background, art’s imitation of life inevitably becomes, either a photostatic copy of the accidental details of life without a pattern or significance, or a personal allegory of the artist’s individual dementia, of interest primarily to the psychologist and the historian[4].
Ciò legittima un’interpretazione contenutistica delle opere di Auden – una lettura che si orienti prevalentemente ai contenuti di pensiero della poesia dell’autore, cercando di afferrare lo sfondo metafisico cui la mimesi artistica rinvia. Qui bisogna però abbandonare ogni illusione circa il carattere neutrale degli strumenti concettuali e formali che la filosofia può mettere in campo per ricostruire il contenuto di pensiero di una qualsiasi pratica espressiva. Il contenuto di pensiero della poesia – anche di quella allegorica – non esiste e non si lascia determinare indipendentemente da quella forma poetica che è essa stessa pensiero senza però lasciarsi ridurre a un contenuto semantico. Ciò non significa che non sia possibile rapportarsi dall’esterno al pensiero della poesia, purché si sia consapevoli che in ogni caso avremo a che fare alla fine con qualcosa di diverso. La traduzione di un piano nell’altro – del pensiero dell’arte nel pensiero filosofico – non avviene mai senza scarti: quegli scarti che al dio dei dettagli, che presiede alla poesia, sembreranno sempre ciò che veramente conta.
La routine della lode e del biasimo
Apparsa per la prima volta nel 1955 all’interno della raccolta The Shield of Achilles, Horae canonicae è un sequenza di sette poemetti che risale al periodo americano della produzione di Auden (1907-1973)[5]: inglese di nascita, infatti, Auden alla fine degli anni trenta si trasferì negli Stati Uniti. L’opera è inoltre espressione della seconda fase esistenziale della vita dell’autore. Dopo l’impegno socialista degli anni giovanili, Auden passò attraverso una profonda crisi religiosa, il cui esito fu una svolta cristiana che non mancò di modificare il suo approccio poetico, avviandolo verso un progetto di poesia allegorica, di parable art: una poesia che sia insegnamento emblematico, parabola sulla condizione umana, e che quindi possa valere sia come strumento di conoscenza di tale condizione sia come strumento di scelta e perfezionamento[6]. Le horae canonicae sono le ore della preghiera, le ore che scandiscono il tempo della giornata secondo una divisione rituale. La giornata è così scandita da una partizione liturgica, che nella sequenza dei sette poemetti di Auden va dalla Prima (primo mattino), alla Terza (metà mattina), alla Sesta (mezzogiorno) alla Nona (metà pomeriggio: l’ora della morte di Cristo, e della discesa dello Spirito Santo), sino al Vespro (tramonto) e a Compieta (notte), per chiudersi con le Laudi (alba). Ci soffermeremo in particolare sul Vespro, perché qui trova espressione nel modo più intenso la dimensione mimetica dell’esistenza umana. Ma prima di confrontarci con questa parte cruciale di Horae canonicae occorre transitare per i versi dell’ora prima che aprono la raccolta con queste parole:
Simultaneamente, silenziosamente, / spontaneamente, subitamente / come, al vanto dell’alba, le benevole / porte del corpo si aprono / al mondo che sta dietro, le porte della mente, / la porta di corno e la porta d’avorio / oscillano, si chiudono, istantaneamente / soffocano la perquisizione notturna / della sua fronda ribelle, deforme, / scadente e malvagia, privata / dei suoi diritti civili, resa orfana e vedova / da uno storico errore: / richiamato dall’ombra a essere una creatura vedente, / dall’assenza all’ostentazione, / senza nome o storia io mi sveglio / tra il mio corpo e il giorno[7].
Al levar del sole anche il corpo è richiamato dall’ombra della notte. In questo suo destarsi come creatura l’io incorporato ripete quasi in un soffio l’Adamo senza peccato della creazione: la condizione creaturale paradisiaca del corpo che, ancora senza nome e senza storia, è completamente obbediente alla luce e così è ancora, nella sua innocenza, esente dalla morte: «e mi sorride questo istante, in cui / il giorno è ancora intatto, e io / sono l’Adamo senza peccato nel nostro principio, / Adamo prima di agire»[8]. Le «benevole porte del corpo», aprendosi ogni mattino alla luce creaturale, ripetono per un attimo infinitesimale la memoria pretemporale di una condizione che è ancora immune dal desiderio. Il primo movimento impercettibile del corpo, la scansione del respiro, segna la caduta. Una caduta nel desiderio: «Respiro; questo naturalmente è desiderare (to whish) / non importa che cosa, essere saggi, / diversi, morire e il costo, / non importa in che modo, è il Paradiso / Perduto e me stesso dovuto alla morte»[9]. La perdita del paradiso, il Paradise lost, è la caduta dalla condizione edenica nell’esistenza storica segnata dal peccato e dalla morte. Un’esistenza il cui respiro, il cui ritmo più profondo è il desiderio. L’impegno alla vita è uno sprofondarsi nel desiderio, prefigurato miticamente nella spirale demoniaca del legame carnale che accomuna gli esseri umani e li allontana dal comandamento divino: «[…] questa carne pronta / non è un onesto compagno, ma il mio complice oggi, / il mio assassino domani, e il mio nome / implica la mia storica parte di pena / per un’autoctona città mentitrice / paurosa del nostro impegno alla vita, per il morente / che il nuovo giorno reclama»[10]. L’entrata nella storia e nel linguaggio è allora, per il corpo che si risveglia, avverte il proprio respiro, e nella memoria del suo «nome» richiama la sua «storica parte di pena», lo stesso destarsi del desiderio come possibilità della caduta.
Sempre nella Prima Auden esprime il legame tra il desiderio e le pratiche del riconoscimento interumano: «e ho coscienza di essere, qui, non solo / ma con un mondo, e ne gioisco / sereno, perché la volontà deve ancora reclamare / come mio questo braccio che mi è accanto, / la memoria chiamarmi per nome, riprendere / la sua routine di lode e di biasimo»[11]. La memoria del proprio nome, e quindi della condizione storico-sociale che configura l’identità personale dell’essere umano, comporta la padronanza della routine of praise and blame. Essere uomini significa esistere nel desiderio. E il desiderio è brama della lode, bisogno di riconoscimento come affermazione di sé, che ciascuno pretende dagli altri ma è solo occasionalmente disposto a concedere. Per questo risvegliarsi all’essere umani è destarsi al conflitto del desiderio che si esprime nella routine del biasimo e della lode. Il desiderio, incanalato nella routine storica di ciò che Hegel nella Fenomenologia dello spirito aveva chiamato Kampf um Anerkennung, è così il contrassegno antropologico della nostra natura e risalta, nella sua pregnanza esistenziale, sul contraltare della figura della «vittima».
Nella Terza, infatti, Auden scrive: «A quest’ora tutti possiamo essere chiunque: / solo la nostra vittima è senza un desiderio (without a whish), / già conosce (ed è questo che non potremo / mai perdonare. Se conosce le risposte, / perché siamo qui, perché c’è anche la polvere?)»[12]. Nella vittima che già conosce le risposte, e che come tale è senza desiderio – visto che quest’ultimo implica l’ignoranza di ciò che accade – si lascia intuire la figura cristologica del figlio, il padre-figlio onnisciente che si incarna immolandosi per il peccato dell’uomo, per riscattare con il suo sangue la caduta nella storia del desiderio. Di questa simbologia cristiana è rilevante qui soprattutto il rimando alla tradizione della vittima innocente. L’innocenza della vittima sta nella sua immunità al desiderio: allo stesso tempo la vittima, conoscendo le risposte, conosce la natura del desiderio. Il sacrificio della vittima, così, è ciò che svela la verità del desiderio, il suo meccanismo segreto. Parimenti il sacrificio della vittima riscatta il desiderio dalla spirale della caduta, riscatta dal desiderio: immolatus vicerit è il motto posto in epigrafe a Horae canonicae. Il sacrificio della vittima innocente è la condizione stessa del compimento e della fine della storia del desiderio.
L’occhio della folla
La simbologia biblica di cui è rivestita l’immagine dell’essere umano che affiora da Horae canonicae è però solo un livello di lettura, che non deve oscurare lo spessore antropologico della raccolta di Auden, che si lascia rileggere anche indipendentemente da una professione di fede[13]. Nei versi di Auden l’antropogenesi e la storia dell’uomo sono espresse come storia del desiderio e del sacrificio: un ciclo storico entro il quale una vittima paga il prezzo della colpa della comunità umana. Nell’esistenza storica le dinamiche conflittuali del riconoscimento conducono, secondo una ciclica ripetizione, al lavacro sacrificale: così la negatività del desiderio, accumulata nella routine della lode e del biasimo, viene espulsa e purificata. Nella Sesta questa dimensione sacrificale della storia umana si coagula nella presenza oscura e minacciosa della folla (the crowd). Anche qui vi è una memoria evangelica: la folla che si raduna di fronte a Pilato, la folla che assiste alla passione di Cristo, la folla ai piedi della croce. Ma i versi di Auden rinviano insieme a un tratto universale della storia umana di ogni tempo e luogo, a una costante antropologica: «Ovunque vi piaccia, in ogni luogo / sull’ampio petto della vivificante Terra, // ovunque fra le sue terre di sete / e l’imbevibile Oceano, // la folla sta perfettamente calma, /gli occhi (che sembrano uno solo) e le bocche // (che sembrano infinite) / senza espressione, perfettamente vuoti»[14].
È la folla di ogni tempo che prende volto nei versi di Auden. In ogni tempo e luogo è la stessa folla a radunarsi: la folla i cui mille occhi, senza espressione e perfettamente vuoti, si compongono in «un solo occhio». Un unico sguardo anonimo che non vede ciò che ciascuno vede – in cui la testimonianza dello sguardo individuale è riassorbita e cancellata. Uno sguardo, scrive Auden, che «vede una sola cosa (che soltanto la folla può vedere)»[15]. Che cosa vede questa folla, in tutto e per tutto simile al grande animale che il politico del Sofista deve saper eccitare e dirigere, alla bestia che la psicologia d’inizio Novecento metterà a nudo, a uso e consumo dei nuovi tiranni? E che cosa succede a chi ad essa si unisce? «Pochi si accettano l’un l’altro e i più / non combineranno niente di buono, // ma la folla non rifiuta, congiungersi alla folla / è l’unica cosa che tutti gli uomini possono fare»[16].
La folla di Auden è così una folla mimetica. Il desiderio genera per sua natura la routine della lode e del biasimo, e conduce alla lacerazione, al conflitto interindividuale. È questa una lotta in cui «pochi si accettano l’un l’altro», rimanendo così in una situazione di rivalità reciproca, negandosi reciprocamente quel riconoscimento e quell’accettazione cui ciascuno ambisce, ponendosi l’un per l’altro come ostacolo ma insieme come strumento per l’autoaffermazione. Così la natura del desiderio espone costantemente al fallimento gli esseri umani che vorrebbero essere riconosciuti e accettati nella loro individualità peculiare, unica e autentica; li espone al rischio di «non combinare nulla di buono», giacché proprio del desiderio individuale è di essere strutturalmente inappagabile, e così esposto alla frustrazione. Mentre la logica del riconoscimento innesca un meccanismo per cui ciascuno desidera affermarsi nella sua individualità distintiva, per altro verso la frustrazione accumulata nel desiderio viene scaricata attraverso la congiunzione alla folla (joining the crowd).
La folla accoglie e assimila – e in essa tutte le voci divengono anonime, infinite bocche vocianti di un unico grande occhio. Non è solo il tratto fusionale e de-individualizzante a prendere rilievo in Auden, ma anche quell’aspetto mimetico che molte analisi, da Gustav Le Bon a José Ortega y Gasset ed Elias Canetti, hanno visto come il motore del contagio emozionale. Nella folla, come sostiene Elias Canetti in Massa e potere, gli uomini aboliscono le distanze tra loro e finiscono per sentirsi uguali attraverso un processo mimetico di assimilazione, che si diffonde per contagio e trascina i singoli in un vortice di identificazione, portandoli all’annullamento delle differenze e quindi della loro individualità[17]. La folla si costituisce così come un unico corpo: un corpo che incorpora tutti gli altri corpi, come la folla di Auden, il cui unico occhio, senza espressione, è perfettamente vuoto, privo di contrassegni individuali. La mimetizzazione nella massa è per un verso un processo che, producendo identità mimetica, assorbe la tensione distruttiva dei conflitti interindividuali del desiderio. La comunità scissa dalla routine della lode e del biasimo si ricompatta in una folla che, come mostra Canetti, porta avanti e intensifica un processo di fusione comunitaria, canalizzando l’energia negativa accumulata verso un fine esterno comune con cui tutti possono identificarsi. Così agiscono ad esempio la massa in fuga, la massa festiva, la massa del rovesciamento. Alla massa aizzata di cui parla Canetti, e che si forma con lo scopo di catturare una vittima e di ucciderla collettivamente, corrisponde il movimento della folla di Auden, che si raduna per assistere alla passione e all’immolazione di una vittima. Lo spettacolo di questa morte è insieme l’occasione di un’identificazione mimetica, di un’assimilazione reciproca in cui gli individui si rendono uguali e superano tutte le diffidenze. Joining the crowd is the only thing all men can do: solo in ciò gli uomini sono potenzialmente uguali. Nella facoltà di unirsi alla massa vociante essi realizzano atrocemente l’uguaglianza e la fratellanza: «Solo per questo noi possiamo dire / che tutti gli uomini sono nostri fratelli, // superiori, per questa ragione, / alle strutture sociali […]»[18].
Il fatto che ciascuno possa assimilarsi a tutti gli altri nell’anonimato della folla sostiene un argomento collettivistico a favore dell’uguaglianza, le cui conseguenze non sono dissimili dall’argomento individualistico hobbesiano dell’homo necans[19]: là ciascuno era fondamentalmente uguale in quanto poteva uccidere ogni altro individuo, qui ciascuno realizza l’uguaglianza nell’unirsi a una folla aizzata ad uccidere. Su questa antropologia negativa è costruito il senso mimetico della comunità storica e sociale quale comunità di sangue dei fratelli. L’uomo diventa membro di un collettivo storico-sociale di uguali nella misura in cui è capace di assimilarsi, esponendosi al contagio mimetico e lasciandosi includere in una folla sacrificale. La comunità storica degli uomini si fonda così sul sacrificio di una vittima. Attraverso questo sacrificio la rivalità del desiderio interindividuale risulta disinnescata, consentendo agli uomini di identificarsi tra loro e di orientare le loro energie negative su un oggetto esterno.
Sdoppiamenti
Nella luce crepuscolare del Vespro Auden ci presenta una scena che si svolge sulla collina del calvario, conosciuta come la «tomba di Adamo». Il teschio che spesso si vede raffigurato ai piedi della croce o del monte Cranio è, secondo una leggenda cristiana – la leggenda della vera croce raffigurata da Piero della Francesca nel duomo di Arezzo e narrata da Jacopo da Varagine –, lo stesso teschio di Adamo, il primo essere umano: l’uomo che peccando entra nella condizione mortale e così nel desiderio. Sotto la tomba di Adamo la comunità della fratellanza di sangue è già costituita: è già l’ora che segue l’immolazione della vittima. Qui due uomini qualsiasi possono incontrarsi («Ed è in quest’ora che i nostri due sentieri si incrociano»[20]). L’incontro fra gli esseri umani è possibile solo nella storia, dopo la caduta, nella memoria abissale del desiderio. E il desiderio, come relazione tra individui, è subito preso nella routine della lode e del biasimo, che qui si esplica come dinamica del disprezzo e della paura: «Simultaneamente uno riconosce (recognise) nell’altro il suo Anti-tipo: che io sono un Arcadico, che lui è un Utopista. // Lui nota, con disprezzo, il mio ventre aquariano; io noto, allarmato, la sua bocca da Scorpione»[21].
Il rapporto fra gli esseri umani, segnati dal desiderio, è allora una relazione negativa di riconoscimento, come risulta chiaramente anche da un passo del celebre poema The Age of Anxiety:
[…] Ed egli impara la realtà delle / Immagini; e che malgrado la violenta / Volontà d’unirsi, l’impetuosa promessa non può / Esser tenuta, il loro caso è doppio; / Ciascuno ora, infatti, di necessità ignora l’altro, / Poiché sulle strade rivali del riconoscimento / I teneri nomi, voci della notte al colmo, / S’incrociano sopra la loro corsa inesorabile / Verso compatte solitudini, e gli io ritornano / Ai corpi, e ciascuno insiste / Nel luogo più vicino la sede sua pertinente. / Così, imparando ad amare, alla fine egli apprende / Che non ama affatto[22].
I doppi, incontrandosi sulle rival routes of recognition, sono incanalati in un conflitto in cui essi affermano e insieme negano il riconoscimento che reciprocamente esigono l’uno dall’altro. Così gli individui, mentre si riconoscono, insieme si contrappongono. Il disprezzo e la paura sono legati al fatto che ciascuno riconosce nell’altro il suo Anti-type. In questa relazione di rivalità riconoscitiva ciascuno definisce se stesso in opposizione all’altro, come qualcosa che si distingue attraverso la negazione del suo anti-tipo. Ognuno tende ad affermarsi nella sua differenza, ha una passione per la distinzione. Una passione alimentata, secondo la diagnosi già di Hobbes, dalla consapevolezza segreta dell’uguaglianza[23]. E non è proprio questa consapevolezza ad affiorare fugacemente nell’atteggiamento dei due che si fronteggiano nei versi di Auden? Essi si contrappongono come antagonisti per dimenticare la loro affinità, l’identità mimetica segreta la cui origine immemoriale sta nel patto di sangue che cementa la società umana: «Lui vorrebbe vedermi pulire le latrine; io vorrei vederlo rimosso in qualche altro pianeta. // Nessuno dei due parla. Quale esperienza potremmo condividere? // […] // Potrete capire, allora, perché tra il mio Eden e la sua Nuova Gerusalemme nessun trattato è negoziabile»[24]. È in scena una contrapposizione che va radicalizzandosi, sino al grado estremo in cui è negata qualsiasi condivisione, e così qualsiasi possibilità non solo di dialogo ma anche di negoziazione di interessi. Nei conflitti riconoscitivi la contrapposizione può conoscere vari gradi, che vanno dall’indifferenza totale dei doppi che si ignorano l’un l’altro, alla rivalità sotterranea, sino alla lotta per la vita e la morte. I due di Auden sono semplici passanti, che per un attimo, e simultaneamente, si intravedono con la coda dell’occhio come l’uno l’opposto dell’altro. Eppure, in quell’occhiata di sfuggita, accade anche dell’altro. Con uno scorcio magistrale Auden scrive: «Così, con un’occhiata di passaggio (with a passing glance), cogliamo uno la posizione dell’altro; già i nostri passi si allontanano, opponendosi, ciascuno incorreggibile, verso il proprio genere di pranzo e serata»[25].
Quest’occhiata di passaggio non è solo un reciproco guardarsi, prendere le misure, una muta conversazione di gesti accompagnata da una percezione ostile dell’altro. E non si tratta neppure solo di «una casuale intersezione di sentieri della vita, fedeli a fandonie diverse»[26]. Il fatto è che ciascuno, passando a fianco dell’altro e percependolo, è segretamente attratto dalla sua presenza. Sotto il disdegno apparente, ciascuno mal cela la stessa attenzione segreta per l’altro. La volontà di differenza tradisce qui l’identità e la reciprocità mimetica dei due. Ciascuno è l’anti-tipo dell’altro proprio in quanto è il suo Doppio: quel Double che già nell’Ora nona era stato richiamato da Auden con questi versi: «invitando il fastidio, fino a una stanza / rischiarata da una lampada fioca, dove il nostro Doppio / siede scrivendo e non alza gli occhi»[27].
Auden aveva già inquadrato in maniera memorabile la dinamica dei doppi in The Age of Anxiety, un poema allegorico – «egloga barocca» recita il sottotitolo – che canta le sette età dell’uomo e i sette stati della sua crescita storica e interiore, intrecciando prospettiva filogenetica e ontogenetica nelle voci di quattro personaggi – Rosetta, Emble, Quant e Malin – che si incontrano casualmente, durante il conflitto bellico, in un bar. Così recita il monologo interiore di Quant:
Mio “due”, mio doppio, mia cara immagine, / C’è allegria dunque in quella landa di vetro / Dove il canto è una smorfia, e il ragionare / Una sequela di gesti? […] // […] Ti pedinerò e smaschererò, / Ti farò confessare quanto sai, / Tu che spii i miei vizi con vergognoso / E annoiato disprezzo del cameriere, la Schadenfreude / Del cuoco al buco della serratura. Vecchio compagno, dimmi / La menzogna della mia vita, ma serbami / Le tue grazie […][28].
Nel monologo Quant, vedendo la propria immagine riflessa – se stesso come altro –, intravede già in sé il doppio – pur non avendolo ancora effettivamente conosciuto. Si presenta già qui, con toni che possono ricordare L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre (1943), la vasta gamma di sentimenti che accompagnano la rivalità riconoscitiva e che vanno dalla vergogna al disprezzo, dalla simulazione alla complicità. Ma sentiamo anche un frammento del monologo di Malin, il doppio reale la cui immagine Quant vede nella propria immagine: «[…] unica quindi / È la condizione umana; perché l’io è un sogno / Finché il bisogno del prossimo lo crea con un nome; / Non c’è un punto medio per l’uomo; i suoi specchi deformano; / Anche le sue arcadie più verdi hanno fantasmi; / Le sue utopie inducono a giovinezza eterna / O a suicidio»[29]. Lo sdoppiamento riconoscitivo è così indicato come dimensione fondamentale della condizione umana. L’io rimane un sogno, scrive Auden, sin tanto che non si costituisce nell’interazione reciproca – till a neighbour’s need by name create it. Ma proprio perché l’io non ha alcuna realtà indipendentemente dal gioco di rispecchiamenti deformanti dei doppi – dal modo in cui essi si immaginano, si desiderano e così si imitano reciprocamente –, allora esso avrà un carattere fantasmatico, non preesistendo agli specchi che lo riflettono e distorcono.
Rendez-vous tra complici
Ognuno, pur essendo il doppio mimetico dell’altro, tenta insieme di negare questa differenziazione – tenta di negare la reciprocità per cui ciascuno, desiderando l’altro, lo assume a modello, e così lo imita, facendo quello che l’altro fa. Questa stessa relazione, in cui consiste l’identità fondamentale dei due, il loro rispecchiarsi l’uno come il doppio dell’altro, è quanto successivamente Girard illustrerà come «reciprocità violenta»:
Quando la simmetria del rapporto mimetico è veramente stabile, di essa ci si vuole sbarazzare. Sotto l’effetto della reciprocità violenta, in altri termini, ogni modello si trasforma in un antimodello; invece di assomigliare, si tratta ormai di differire[30].
La distinzione è, per esprimersi con Girard, la menzogna romantica dell’individualità: sotto di essa si nasconde la verità romanzesca della mimesi, cioè il fatto che nella reciprocità imitativa ognuno è il doppio reale dell’altro. E per Girard il misconoscimento fondamentale della società consiste nell’oblio del meccanismo mimetico di reciprocità violenta attraverso il quale si modella l’identità umana. In un’intervista del 1978 Girard ha affermato una volta che Ed Mendelson – il curatore delle opere di Auden – gli avrebbe fatto notare il passo di Horae canonicae in cui si incontrano i doppi[31]. Questa lettura di Horae canonicae dovrebbe aver mostrato già, a questo punto, che in Auden non vi è semplicemente qualche passo che può essere letto come anticipazione della tesi di Girard e di Canetti, ma piuttosto è presente una visione originale della natura mimetica dell’essere umano, che connette internamente il problema della mimesi con quello della pratica sacrificale nell’esistenza storica. È così tornando a Horae canonicae che possiamo afferrare il sottofondo del meccanismo della reciprocità dei doppi. Che cosa accade nel momento di quell’occhiata segreta, di quello sguardo di passaggio? Per Auden si tratta di un rendezvous between two accomplices:
Oppure un rendez-vous tra due complici che, a proprio dispetto, non possono fare a meno di incontrarsi, // per ricordare all’altro (tutti e due, al fondo, desiderano la verità?) quella metà del loro segreto che uno vorrebbe assolutamente dimenticare, // e che costringe entrambi, per una frazione di secondo, a ricordare la nostra vittima (ma per lui io potrei dimenticare il sangue, ma per me lui potrebbe dimenticare l’innocenza), // sulla cui immolazione (chiamatela Abele, Remo, o come vi pare, è un solo Sacrificio Espiatorio) le arcadie, le utopie, il nostro caro vecchio bagaglio di democrazia sono ugualmente fondati: // poiché senza un cemento di sangue (dev’essere umano, dev’essere innocente) nessun muro secolare viene eretto stabilmente[32].
Nell’incontro/scontro fra i due individui che, passando in una folla, casualmente si urtano, si manifesta allora un’affinità segreta. Subito ciascuno afferma la propria volontà di differire, è preda del desiderio di essere riconosciuto e quindi della passione per la distinzione. Ma insieme ciascuno ricorda all’altro «quella metà del loro segreto che uno vorrebbe assolutamente dimenticare». Un segreto che era presente sin dai primi versi di Horae canonicae, nella scena della caduta in cui «questa carne pronta» si rivelava il «mio complice oggi» e il «mio assassino domani». Ciascuno è un symbolon di tale segreto, quasi la metà di quell’unico anello o vaso che gli amanti si dividevano nel momento della separazione: ognuno è un frammento che ha senso solo in quanto richiama la parte mancante e affine. Ma il segreto che i due lasciano affiorare nella messa in scena dell’opposizione non è solo quello del doppio, dell’identità mimetica degli antagonisti – il segreto del desiderio in ultima istanza. Quell’occhiata di passaggio è uno sguardo tra complici: nell’occhio del doppio si riflette il segreto della vittima, vale a dire l’esito catartico della crisi mimetica scatenata dalla rivalità fra i doppi e risolta attraverso l’assimilazione alla folla e l’azione sacrificale. Il sangue innocente è svelato come il «cemento» senza il quale «nessun muro secolare viene eretto stabilmente». Questa è per Auden la lezione profonda sul genere umano sia del mito pagano sia di quello biblico, e in generale di ogni situazione antropologica. Call him Abel, Remus, whom you will, it is one Sin Offering: non vi è legame sociale, comunità umana e istituzione storica – arcadie, utopie, democrazie – che non abbia un fondamento sacrificale. È questa la cocente verità del desiderio custodita nello sguardo fuggevole del passante. La «verità» che al fondo entrambi desiderano è così la natura mimetica dell’uomo, la verità della vittima – a cement of blood – e, proprio perché tale, la verità del desiderio, dell’essere umano che è entrato nella storia mortale. Un sacrificio che è prodotto da una mimesi sacrificale – l’identificazione mimetica di una folla aizzata contro una vittima – e che proprio attraverso tale atto può canalizzare su un oggetto esterno la rivalità generata dalla mimesi reciproca. La società, allora, non è né naturale né l’esito di un contratto razionale: semmai è il prodotto di un consenso passionale di tipo sacrificale.
Sarà proprio a partire da questa mimesi sacrificale e rituale che Girard, per certi versi dando la forma di una teoria chiusa all’intuizione già contenuta nella visione aperta e polisemica dell’allegoria poetica di Auden, formulerà la teoria per cui la società umana sarebbe resa possibile dall’espulsione sacrificale della violenza: una mimesi catartica che, purificando gli uomini dalla violenza reattiva scatenata dalle spirali del desiderio e della routine della lode e del biasimo, finisce per produrre e cementare ritualmente il muro secolare del potere collettivo che istituisce divieti e norme.
Il lampo della conoscenza negativa
Quale ruolo ricopre la poesia all’interno della visione audeniana della condizione umana? Nell’esistenza storica, segnata dal desiderio, e cementata socialmente dal sacrificio, la poesia assolve essa stessa una funzione rituale, secondo quanto Auden scrive nel saggio Fare, conoscere, giudicare[33]: essa è un rito verbale che, attraverso la denominazione, rende attivamente omaggio al sacro, a ciò che nell’immaginazione primaria – avente ad oggetto il sacro e il profano – suscita passiva reverenza o timore. Il rito verbale della poesia è così il compimento del desiderio espressivo proprio dell’immaginazione secondaria attiva – avente ad oggetto il bello e il brutto. Una funzione mimetico-rituale che ha il compito di lodare e rendere omaggio a ciò che esiste e accade, e che per Auden sopravvive anche nel mondo contemporaneo, ove il confine tra sacro e profano si è spostato a tal punto che alla poesia non è più riconosciuto socialmente un ruolo pubblico ed essa è divenuta il rito intimo di un individuo singolo che si rivolge ad altri individui. È interessante notare come Auden sottolinei la struttura universalmente antropologica di tale rito, affermando che esso non è un atto di devozione in senso cristiano e non ha nulla a che fare con Dio come redentore. In un saggio precedente il carattere rituale dell’espressione poetica è invece connesso all’idea di una comunità altra rispetto a quella cementata nel sangue del sacrificio. In La vergine e la dinamica[34] infatti, Auden distingue fra loro le nozioni di «folla», «società» e «comunità», scrivendo che «il poeta cerca di trasformare in comunità questa folla, incarnandola in una società di parole». La comunità della poesia è l’«armonia possibile», la «conciliazione nel futuro»: la dimensione utopica che Auden legge come possibilità – cui la poesia tende ma che non si risolve in essa – di riconquistare uno stato paradisiaco. Il collettivo storico della folla, quindi, non è una vera comunità: tale sarebbe solo la comunità d’amore di individui unici e insostituibili – non più un mondo delle masse bensì un mondo di individui – cui la poesia tende utopicamente come a un telos (trasformare le masse in individui) che sta oltre la sua dimensione estetica. Si coglie così una doppia tensione nella concezione rituale della poesia, che da un lato è celebrazione di ciò che accade, dall’altro, proprio in quanto celebra e loda l’esistente, rinvia oltre esso, prefigura ex negativo una condizione di perfezionamento dell’individualità.
Possiamo capire meglio che cosa è in gioco in questo snodo se realizziamo che la poesia non è solo un rituale – e come tale essa stessa un medio storico attraverso il quale si dispiega e istituzionalizza la natura mimetica dell’uomo – ma anche una forma di conoscenza. Tale forma di conoscenza non è indipendentemente dal rituale ma si realizza proprio attraverso di esso. In tal senso la poesia consiste in una conoscenza mimetica che, lodando e celebrando ciò che accade – e dunque l’esistenza storica per come essa si dispiega – finisce per avere ad oggetto la stessa natura mimetica dell’uomo. E proprio come tale essa realizza una conoscenza negativa, in un duplice senso del termine[35]. Essa contiene una conoscenza del negativo, e innanzitutto della negatività del desiderio. Questo è il flash of negative knowledge che abbaglia Malin in The Age of Anxiety:
Malin pensò: / Per gli altri come me, c’è solo il lampo / Della conoscenza negativa, la notte che ubriachi / Si brancola verso il bagno e si fissa allo specchio / Faccia a faccia la nostra pazzia; la notte che le parole / Dette da nostra madre ci appaiono / Deliziose sciocchezze, e i prudenti consigli / Dei settimanali liberali un’arte tanto perduta / Quanto la terracotta contadina[36].
La conoscenza negativa è conoscenza dello specchio e della sua dinamica, e così del carattere non sostanziale, ingannevole e mutevole dell’identità umana che nel rispecchiamento si forma e deforma, dell’io fantasmatico che nel gioco dei doppi viene all’esistenza. Ma la rivelazione improvvisa della conoscenza negativa investe anche la condizione di separetezza ontologica in cui ciascuno, nonostante la reciprocità dei doppi, inizia e termina l’esistenza, pensando «in un sogno diverso», essendo condannato a incontrare veramente gli altri, in una qualche forma di comunione, solo per istanti fugaci, destinati a essere subito dimenticati. Negativo è dunque il contenuto conoscitivo della poesia; ma negativa è anche la sua stessa esperienza, che si dà nel corso dell’esistenza umana nella forma del frammento che rinvia allegoricamente ad altro. Così Auden scrive: «Le loro strade si incrociano e riincrociano, e tuttavia non si incontrano nemmeno una volta, sebbene di quando in quando ognuno riesca a cogliere, non lontano, un piccolo frammento del canto degli altri (a brief snatch of another’s song)»[37]. Un’esperienza che si dà sulle strade rivali del riconoscimento, ove di quando in quando, per lampi e accecamenti, ognuno riesce a cogliere il canto come frammento: il piccolo frammento del canto degli altri che riluce nel rito poetico. Infine la conoscenza negativa della poesia è tale perché essa, mentre riflette la natura mimetica e oppositiva del desiderio – la distanza ontologica in cui conduciamo le nostre esistenze – non solo rinvia all’altro e al suo canto, ma è insieme un’immagine rovesciata della conciliazione. Così la conoscenza negativa della poesia compie la sua destinazione allegorica nella forma del riflesso dialettico, del rinvio ad un Doppio, ad un Altro, a «Quel Sempre-Opposto (Always–Opposite)» che per Auden è l’intero soggetto «del nostro non-conoscere (our not-knowing)»[38]. Un riflesso che qui, come nella poesia The Riddle (1939), assume la forma del rispecchiamento della persona umana in quella trinitaria, connotando teologicamente la mimesi dell’uomo. La mimesi poetica, qualificata negativamente dalla scepsi estetica di Auden quale forma finita e insufficiente di conoscenza, riflette infine la divina mimesi, e rivela così in questi versi uno statuto ontologico segreto:
Gli amanti cercandosi sanno / che sì timidi sogni prendon fuoco / appena si toccano, / solo ciò che amore insegna imparano: / felici in un letto disfatto, / l’acuta frase di Blake lodano: / “Solo una cosa l’uno all’altro chiediamo; che si debba / sui lineamenti altrui vedere / il desio appagato”; / questa è la nostra umanità; / non c’è altro che allieti. // Solo nei tuoi occhi avrei potuto / conoscere, amore, ciò che / dobbiamo imparare, / che amiamo soltanto noi stessi; / dissolte le nostre paure, / finalmente impariamo a dire: / “Tutto il nostro sapere porta a questo, / che l’esistenza basta, / che in solitudine atroce / o nel gioco d’amore / ogni creatura vivente è / Donna, Uomo e Bambino”[39].
Italo Testa
[già apparso in “La società degli individui”, 33, 3, 2008, pp. 68-84]
[1] Aristotele, Poetica, 48b 4-8. Sul problema della mimesi nello scontro tra filosofia e poesia, e in rapporto alla teoria del romanzo, si veda in particolare G. Mazzoni, Mimesi, narrativa, romanzo, “Moderna”, VII, 2005/2, pp. 21-55.
[2] Ibidem, 48b 20-25.
[3] W. H. Auden, The Age of Anxiety. A Baroque Eclogue (1947), ora in Collected Poems, a cura di E. Mendelson, Random House, New York 1976, pp. 343-409, trad. it. (con testo a fronte) di L. Dessì e A. Rinaldi, L’età dell’ansia. Egloga barocca, intr. di V. Magrelli, Il Nuovo Melangolo, Genova 1994.
[4] W. H. Auden, Mimesis and allegory (1940), ora in Prose. Volume II. 1939-1948, a cura di E. Mendelson, Faber and Faber, London 2002, p. 87.
[5] W. H. Auden, Horae canonicae (1955), ora in Collected Poems, cit., pp. 475-486, trad. it. (con testo a fronte) di A. Ciliberti, Horae canonicae, Se, Milano 2000.
[6] Su ciò cfr. F. Buffoni, L’ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta, Marcos y Marcos, Milano 2007, cap. X.
[7] Horae canonicae, cit., pp. 12-13: «Simultaneously, as soundlessly, / Spontaneously, suddenly / As, at the vaunt of the dawn, the kind / Gates of the body fly open / To its world beyond, the gates of the mind, / The horn gate and the ivory gate / Swing to, swing shut, instantaneously / Quell the nocturnal rummage / Of its rebellious fronde, ill-favored, / Ill-natured and second-rate, / Disenfranchised, widowed and orphaned / By an historical mistake: / Recalled from the shades to be a seeing being, / From absence to be on display, / Without a name or history I wake / Between my body and the day».
[8] Ibidem, pp. 12-15: «And smiling to me is this instant while / Still the day is intact, and I / The Adam sinless in our beginning, / Adam still previous to any act».
[9] Ibidem, pp. 14-15: « I draw breath; this is of course to wish / No matter what, to be wise, / To be different, to die and the cost, / No matter how, is Paradise / Lost of course and myself owing a death».
[10] Ibidem: «[…] this ready flesh / No honest equal, but my accomplice now / My assassin to be, and my name / Stands for my historical share of care / For a lying self-made city, / Afraid of our living task, the dying / Which the coming day will ask».
[11] Ibidem, pp. 12-13: «And I know that I am, here, not alone / But with a world and rejoice / Unvexed, for the will has still to claim / This adjacent arm as my own, / The memory to name me, resume / Its routine of praise and blame».
[12] Ibidem, pp. 18-21: «At this hour we all might be anyone: / It is only our victim who is without a wish / Who knows already (that is what / We can never forgive. If he knows the answers, / Then why are we here, why is there even dust?)».
[13] Il motivo cristiano e anglo-cattolico di Horae canonicae sembra aver attirato prevalentemente l’attenzione dei rari saggi critici dedicati a questo testo, come ad esempio negli studi di Jan Curtis, che insiste soprattutto sugli elementi liturgici e sull’influenza di Niebhur e Tillich su Auden. Cfr. J. Curtis, W. H. Auden’s “Vespers”: A Christian Refutation of Utopian Dreams of Ultimate Fulfillment, “Renascence: Essays on Values in Literature”, 52, 2000/3, pp. 203-217; Id., W. H. Auden’s Theology of History in Horae Canonicae: “Prime”, “Terce” and “Sext”, “Literature & Theology”, 11, 1997/1, pp. 46-66; P. Walker, Horae Canonicae: Auden’s Vision of a Rood: A Study in Coherence, in D. Jasper, Images of Belief in Literature, St. Martin’s, New York 1984, pp. 52-80.
[14] W. H. Auden, Horae canonicae, cit., pp. 32-33: «Anywhere you like, somewhere / on broad-chested life-giving Earth, // anywhere between her thirstlands / and undrinkable Ocean, // the crowd stands perfectly still, / its eyes (which seem one) and its mouths // (which seem infinitely many) / expressionless, perfectly blank».
[15] Ibidem: «the crowd sees only one thing / (which only the crowd can see)».
[16] Ibidem, pp. 34-35: «Few people accept each other and most / will never do anything properly, // but the crowd rejects no one, joining the crowd / is the only thing all men can do».
[17] Cfr. E. Canetti, Massa e potere (1960), Adelphi, Milano 1981.
[18] W. H. Auden, Horae canonicae, cit., pp. 34-35: «Only because of that can we say / all men are our brothers, // superior, because of that, / to the social exoskeletons […]».
[19] Cfr. T. Hobbes, De cive, I, 3.s
[20] W. H. Auden, Horae canonicae, cit., pp. 48-49: «And it is now that our two paths cross».
[21] Ibidem, pp. 48-51: «Both simultaneously recognise his Anti-type: that I am an Arcadian, that he is a Utopian. // He notes, with contempt, my Aquarian belly: I note, with alarm, his Scorpion’s mouth». Sul motivo degli «arcadici» e degli «utopisti» nell’opera di Auden cfr. P. Aquien, W. H. Auden, de l’Atlantide à la Nouvelle Jérusalem, “Études anglaises”, 54, 2001/1, pp. 41-54.
[22] W. H. Auden, L’età dell’ansia, cit., pp. 84-85: «[…] and he learns what real / Images are; that, however violent / Their wish to be one, that wild promise / Cannot be kept, their case is double; / For each now of need ignores the other as / By rival routes of recognition / Diminutive names that midnight hears / Intersect upon their instant way / To solid solitudes, and selves cross / Back to bodies, both insisting / Proximate place a pertinent thing. / So, learning to love, at length he is taught / To know he does not».
[23] Cfr. T. Hobbes, op. cit., I, 15.
[24] W. H. Auden, Horae canonicae, cit., pp. 50-51: «He would like to see me cleaning latrines: I would like to see him removed to some other planet. // Neither speaks. What experience could we possibly share? // […] // You can see, then, why, between my Eden and his New Jerusalem, no treaty is negotiable».
[25] Ibidem, pp. 54-55: «So with a passing glance we take the other’s posture; already, our steps recede, heading, incorrigible each, towards his kind of meal and evening».
[26] Ibidem: «a fortuitous intersection of life-paths».
[27] Ibidem, pp. 44-45: «Inviting trouble, to a room, / Lit by one weak bulb, where our Double sits / Writing and does not look up».
[28] W. H. Auden, L’età dell’ansia, cit., pp. 32-33 e ss.: «Me deuce, my double, my dear image, / It is lively there, that land of glass / Where song is a grimace, sound logic / A suite of gestures? […] // […] I’ll track you down, / I’ll make you confess how much you know who / View my vices with a valet’s slight / But shameless shrug, the Schadenfreude / Of cooks at keyholes. Old comrade, tell me / The lie of my lifetime but look me up in / Your good graces […]».
[29] Ibidem, pp. 36-37: «[…] singular then / Is the human way; for the ego is a dream / Till a neighbour’s need by name create it; / Man has no mean; his mirror distort; / His greenest arcadias have ghosts too; / His utopias tempt to eternal youth / Or self-slaughter».
[30] R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), Adelphi, Milano 1983, pp. 370-371.
[31] Cfr. Interview: René Girard, “Diacritics”, 8, 1978/1, pp. 31-54, in particolare p. 54.
[32] W. H. Auden, Horae canonicae, cit., pp. 54-55: «Or also a rendezvous between accomplices who, in spite of themselves, cannot resist meeting // to remind the other (do both, at bottom, desire truth?) of that half of their secret which he would most like to forget, // forcing us both, for a fraction of a second, to remember our victim (but for him I could forget the blood, but for me he could forget the innocence), // on whose immolation (call him Abel, Remus, whom you will, it is one Sin Offering) arcadias, utopias, our dear old bag of a democracy, are alike founded: // For without a cement of blood (it must be human, it must be innocent) no secular wall will safely stand».
[33] Cfr. W. H. Auden, Fare, conoscere, giudicare (1956), in La mano del tintore, trad. it. di G. Fiori, Adelphi, Milano 1999, in particolare pp. 74-80.
[34] Cfr. W. H. Auden, La vergine e la dinamica (1950), ibidem, pp. 81-113.
[35] Sulla «conoscenza negativa» in Auden cfr. in particolare F. Buffoni, op. cit., pp. 138-140.
[36] W. H. Auden, L’età dell’ansia, cit., pp. 266-267: «Malin thought: / For the others, like me, there is only the flash / Of negative knowledge, the night when, drunk, one / Staggers to the bathroom and stares in the glass / To meet one’s madness, when what mother said seems / Such darling rubbish and the decent advice / Of the liberal weeklies as lost an art / As peasant pottery […]»
[37] Ibidem, pp. 184-185: «Their ways cross and recross yet never once they meet though now and then one catches somewhere not far off a brief snatch of another’s song».
[38] Ibidem, pp. 270-271.
[39] W. H. Auden, The Riddle, ora in Collected Poems, cit., pp. 204-205, trad. it. (con testo a fronte) di N. Gardini in Un altro tempo, Rcs, Milano 2004, pp. 108-111: «Lovers running each to each / Feel such timid dreams catch fire / Blazing so they touch, / Learn what love alone can teach: / Happy on a tousled bed / Praise Blake’s acumen who said: / “One thing only we require / Of each other: we must see / In another’s lineaments / Gratified desire”; / That is our humanity; / Nothing else contents. // Nowhere else could I have known / Than, beloved, in your eyes / What we have to learn, / That we love ourselves alone: / All our terrors burned away / We can learn at last to say: / “All our knowledge come to this, / that existence is enough, / That in savage solitude / Or the play of Love / Every living creature is / Woman, Man and Child”».