Antonio Loreto
È nella paralisi, in un tempo e in uno spazio impediti, che la poesia di Gilda Policastro proposta in Antiprodigi e passi falsi (per “Inaudita” di Transeuropa), trova la sua dimensione. Uno spazio bidimensionale e patologicamente ospitale, quello disteso di un corpo malato costretto a letto (M’ama non m’ama, tra le altre), o di un corpo d’inetto che sceglie – per sfuggire alle costrizioni sociali o biologiche, per non (saper) aderire alla vita comandata – di aderire immobile ad un pavimento (Hora). E il tempo, per parte sua, consiste nello scorrere molto rallentato del cursore: avanti e indietro a contemplare una pretesa reversibilità, dove le cose che accadono, i rapporti che si stringono, si percepiscono accaduti e stretti in un’ora magari dilazionata, come si legge, ma continuamente rovesciata, colma di “incontrarii”, e di umori – non diciamo quali – che ancora mentre inondano sono rappresi. Lassi di tempo che si contraggono così in un punto, cioè in uno spazio finalmente invivibile.
Il prodigio, quello che alla vita e al suo soggetto viene negato (come da prefisso titolativo), è infatti il comune vivere, se pare un miracolo adeguarsi alla società, alla famiglia, a se stessi, alla carne la cui intelligenza non basta a capire se si sopravviva col nutrimento o il suo opposto. Mentre i prodigi in senso più esatto, le epifaniche Tre visioni, giungono senza svelare alcunché, solo a confermare un po’ auraticamente nell’arte di Hermann Nitsch, Louise Bourgeois e Bill Viola, rispettivamente: il rovesciamento crudo (come nel Sanguineti – che Policastro tanto ama e troppo calca, a tratti – del dodicesimo Cataletto); l’immobilità aracnide, di ragno materno e venatore, della sua prole e preda; i pressoché finti movimenti della propria figura e della propria storia. La quale storia viene anche sottoposta a ripensamento e a trazione (Nuove stagioni), provando ad associare un’anafora ossessivamente retrospettiva a un verso esteso, che vorrebbe garantire una sistemazione del passato e una migliore presa sulla vita che procede, contro cui però resiste una lenta coazione, se non a ripetere, a rimanere.
Vi è una paura dei passi falsi, di quelli fatti come di quelli da fare, che dà luogo ad una collezione di avanzamenti tentati e ritirati, traducibili in cammino isterico, che appoggiato ai ritorni sul già detto (senza nulla aggiungere e semmai togliendo) prende ad assomigliare a un carosello, cercando riscatto nel comico (rilevato per questa plaquette da Stefano Colangelo in “alfalibri” di ottobre). È la comicità triste di un Buster Keaton (maestro dei rovesciamenti: vedi quelli domestici di One Week); è, fuori dalle analogie, una poesia che finisce di attrezzarsi di rime appunto comiche (già nella prima metà del libro se ne vede qualcuna), che diventa rima comico-realistica quando non addirittura filastrocca (Ultima – e di nuovo Sanguineti, ora quello “fuggitivo”), mentre non smette l’armamentario di duri enjambements, o di clausole strofiche che suonano fesse, o di una sintassi che si sospende prima di concludere. Come a dare la misura della propria inettitudine, che non è di specie corazziniana (Essa) e si scarica invece in una adesione panica che ha il suo (anti-)modello in un altro, grande e comico, malato del ’900: il Gengè Moscarda di Uno, nessuno e centomila che appunto «non conclude». Questi fondendosi alla «gran fiumana» della vita si illudeva di andare lontano e di lasciare sul posto, immobile, con i suoi affetti doveri abitudini, il proprio giudice. Per Policastro (Torti), senza illusioni di sorta, sul posto resta un Io implacabile giudice – oltre che degli altri – di se stesso e dei propri passi.
Antonio Loreto
[“il manifesto”, 8 novembre 2011, p. 11 – titolo red. Gilda Policastro, tempi e spazi segnati dalla paralisi]