Massimo Orgiazzi
Tra la considerevole produzione letteraria che ci è dato di affrontare, incontriamo pubblicazioni di poesia il cui percorso è fortemente intriso di citazione, recupero, trasposizione. Molte di esse sono concepite in questo modo per darne un aspetto colto e spesso vi si avverte una componente artificiale, di fattori giustapposti e non bene integrati. Poche altre sono le opere che sanno fare della scrittura un lavoro autentico e al contempo profondo, capace di ospitare; di essere plurali e di cogliere, con modestia ma onestà intellettuale, un respiro ampio di tematiche che rendono l’ensemble un proficuo grano di attualità dell’umano. Una di queste è senz’altro l’opera prima di Nicola Ponzio, poeta e artista visivo. Ne Gli ospiti e i luoghi questo accade attraverso un percorso che si arrischia nella proposizione di un lungo poemetto iniziale che occupa quasi metà raccolta. Già la forma ripropone formule che affondano nella tradizione e offrono una modalità, se pure in forma libera e spesso enigmatica, che consente di aprirsi nella lettura a interpretazioni potenzialmente narrative e per ciò stesso predisposte a raccogliere una pluralità di aspetti umani, artistici e creativi. Il poemetto è intitolato Il falegname Zimmer, chiaro riferimento (prudentemente richiamato da una nota al fondo della raccolta) al singolare “personaggio” che dal 1806 al 1843 ospitò nella sua casa, la celeberrima “torre” sul Neckar, Friederich Hölderlin. Come dice la stessa nota, nel poemetto in due parti vengono evocati i giorni della “trasparente follia” del poeta, in una sorta di immaginario dialogo tra la voce dell’autore, di Hölderlin e del suo ospite. Appare chiaro come la riflessione in versi di Ponzio vada a concentrarsi sì sull’esperienza del poeta trasposta nell’attualità, ma anche come questa apra una speculazione sul rapporto tra psicopatologia e creatività: un’indagine che affronta le tematiche del «destino, del senso dell’essere e dell’alterità» in un modo che lascia poco spazio a fraintendimenti. E’ l’uomo contemporaneo ad essere sotto esame, inseguito dall’arte come da una sua propria creazione sempre meno intermediata con le tecniche, sempre più singolarità alla quale è difficile sottrarsi senza compromettere il proprio rapporto con la realtà circostante. Già la citazione in esergo, tratta da Il pensiero del fuoridi Michel Foucault, parla di un oblio «fatto di una veglia così sveglia, così lucida, così mattiniera che è piuttosto un congedo dalla notte e pura apertura su un giorno non ancora venuto». L’ospitalità, l’accoglienza dell’altro è, se possibile, l’apertura su una dimensione di là da venire. In questo dialogo plurale tra voci che si situano in dimensioni e segmenti temporali differenti fa da sfondo, ma sarebbe più corretto dire, da mezzo di propagazione, la natura, come suggerito nel risvolto di copertina, «avvertita non alla maniera di un edenico illud tempus, ma come presenza imprevedibile, misteriosa e liberatrice, sempre recalcitrante, anche nelle sue manifestazioni più delicate e innocenti, a qualsiasi volontà di controllo». Una natura insomma che vibra come la creatività, che propaga la ricerca sul linguaggio e sull’espressione come indagine di noi stessi destinata a non placarsi, proprio perché, forse, in essa esplode la variabile di un “noi stessi” che si avvicina asintoticamente all’infinito, rielaborato in senso contemporaneo proprio attraverso le figure dell’instabile, dell’imprevisto, dell’esterno. Già nell’acrostico col quale Ponzio compone l’acronimo di Zimmer in apertura (anche questa forma che recupera il passato, fa riaffiorare una tradizione come sorta di psicologia collettiva della Storia), viene richiamata la natura nel suo aspetto di movimento indefinito, caotico, aperto, ma nel contempo capace di rivelare ordine su scala opportunamente scelta: «A metà della vita, / quell’ordine che avevi stabilito / ti raggiunse con l’inganno / di un’assenza scintillante. / Minuti di stagioni senza atlanti, / nello spazio di qualcosa di credibile». La figura di Zimmer, falegname che lesse Kant e che dopo la lettura dell’Iperione di Hölderlin si innamorò a tal punto della figura del poeta da recarsi nella clinica di Tubinga per dire «me lo porto a casa – è inutile rinchiuderlo qui», per poi assisterlo insieme a sua figlia Loth, è la metafora/immagine di chi, come il poeta d’oggi, vuole/deve preservare la scrittura, ma non solo la sua: creatività plurale come falda acquifera alla quale attingere, tale da far partecipare nella condivisione della parola poetica l’altro da sé. Tutti memori di Hölderlin, quasi tutti immemori di Zimmer, che è colui che compie l’atto dell’ospitalità, inspiegato ed inspiegabile alla luce di qualsiasi teoria medico-patologica (cui invece Hölderlin va soggetto continuamente) ma che comunica dedizione ed apertura nel e all’atto creativo, assenza di paura per ciò che l’arte, nelle sue manifestazioni più autentiche, è capace di contenere e trasferire: «Tenere le braccia su un tenero legno. / Compito gravoso e così lieve. / Accudire le neve, il suo bianco parlare, / prima che il sole santamente / se ne approprii». L’incognita dell’identità, persa e continuamente recuperata, è problema di scrittura e di linguaggio: in essi vengono custodite le tracce di un io non più ancorato alla persona, ma libero di essere e di ricrearsi: «Non l’ho perduta la mia età. // La sua spietata ricompensa / ora si aggira tra i filari – ora traluce / in una lingua / ora più vaga ora più amara». E se l’uomo, l’artista, ha «tentato un dettato limpido», nulla trascura della sua vocazione, quella di esistere, come in «un fiume destinato alla corrente»: il caos possibile negli «iati / strami esperimenti convertibili / in rizomi inverni ragni» si cerca di risolverlo «anagrammando le radici / alle parole ancora empie». Il poemetto, che si conclude con precisa simmetria in un secondo acrostico sul nome “Hölderlin”, è un canto e insieme una riflessione sulla possibilità dell’espressione (investigata metapoeticamente ma sempre senza piglio superiore ed autorefenziale), e prima ancora della pulsione che ad essa porta quasi come violenza che mo
ltiplica il reale divorandolo: «Parole come lupi che s’inseguono / nel folto della selva. […] Ho un nuovo nome da smembrare. Un’occasione / da non perdere. (Straniera / è ancora all’alba / la mia preda: febbrile / la promessa a un nuovo libro)». Questa speculazione sulla possibilità della poesia nella dimensione umana e della sua effettiva realtà e utilità si espande nella seconda parte del libro, intitolata Gusci. L’immagine del guscio era già stata introdotta nel poemetto ed era e rimane l’immagine di ciò che è supposto ospitare un’anima, ma che si comprende essere, nella creatività così come nel disturbo mentale, un’indefinita successione di esfoliazioni, di sostituzioni incapsulate che possono rivelare l’umanità nascosta in ogni sofferenza: «Comunitario è chi con cura riconosce / nella propria alterità / quell’apertura necessaria a condividere / con gli altri la sua fame». In questa seconda parte della raccolta, che raggruppa poesie scritte tra il 2003 e il 2004, Ponzio utilizza un linguaggio più preciso, netto, tagliente. I testi di Gusci sono brevi, essenziali, quasi mai superiori ai quattro versi: composizioni rastremate con una tendenza gnomica e al contempo interrogativa; riproposizione della poesia come enigma. Si legge la volontà del poeta di proporre la ricerca di cui si diceva sopra attraverso continue sottrazioni e troncature. Il risultato sono immagini misteriose e potenti, arcaiche nella brevità del dettato – lampi che all’evocazione e visionarietà del poemetto sostituiscono l’intermittenza della percezione e del pensiero: «Militare con la luce del mattino / in questo libero mercato degli eventi». Ponzio sa portare a termine artistico immediato l’indagine cominciata. La ricompensa è la continuazione dell’esistenza vista come oggetto espanso, dimensione allargata che poco ha a che fare con la nascita e la morte fisiche: «Non muore chi compenetra le forme. / Chi fa suoi certi indizi / salutari nella melma inumidita». La ricerca è quella di una consapevolezza prima, che travalica quella dell’esperienza umana codificata. In questo la scrittura è fonte, strumento umile come l’arte del Falegname Zimmer, per «sottrarre dal buio / l’identità dell’alba». In se stessa già un premio, in quanto non una scelta, ma manifestazione che si può senz’altro meritare. «La ricompensa è tutta qui. / Nell’evidenza di sentire / la concreta persuasione / delle api. / Non tanto per raggiungere l’oggetto / di parole misteriose, / quanto piuttosto per comprendere l’amore / che lo scrivere ipoteca».
[versione rivisitata della recensione pubblicata su liberinversi.splinder.com il 4.3.2007]