di Luca Cristiano
Roma, martedì 08/03/2011
(Sistemo il registratore, lo accendo.)
Walter Siti: Quando ho fatto un’intervista a Ronconi per uno dei volumi di Pasolini, quello del teatro, andai lì al Piccolo, facemmo un’intervista che durava almeno un’ora, un’ora e mezza, che a me sembrava molto bella. E quando sono uscito mi sono reso conto che non era rimasto inciso assolutamente niente. Mi son sentito morire! L’ho dovuto richiamare per chiedere se si poteva fare un’altra volta, ma naturalmente la seconda volta non è venuta bella come la prima e quindi…
Luca Cristiano: A me è successa una cosa simile con Antonio Moresco, quando l’ho intervistato per la mia tesi di laurea. Appena spegnevamo il registratore dicevamo soltanto cose bellissime… Direi di iniziare da una considerazione che riguarda la mia esperienza di lettore: io ho letto nell’ultima settimana un migliaio di tue pagine. Tutta la “Trilogia” e poi subito “Autopsia dell’ossessione”. So chi ho di fronte?
W: Quindi hai saltato “Il contagio”.
L: Ho saltato “Il contagio”, “La magnifica merce” e “Il canto del diavolo”.
W: Ok.
L: Perché io trovo una linea di continuità tra la “Trilogia” e “Autopsia dell’ossessione”.
W: Su questo non c’è dubbio. Ma tu mi chiedevi “So chi ho di fronte?”. Direi di sì. Forse l’unica cosa che non ti è chiarissima è il percorso di questo personaggio transtestuale che avrai incontrato alla fine della seconda parte di “Troppi paradisi” e che è Marcello (lo stesso personaggio, negli altri libri, assume nomi diversi, nda.). Perché in realtà Marcello ormai compare in cinque miei romanzi o racconti: il primo racconto della “Magnifica merce”, che si chiama “Perché io volavo” ed è la presentazione del personaggio; “Troppi paradisi” è un po’ la scoperta dell’amore e c’è un po’ la sua psicologia; nel “Contagio” c’è invece il suo contesto, l’ambiente dove vive, i suoi amici, eccetera. In quel librettino su Dubai (“Il canto del diavolo”, nda.), comunque c’è una specie di normalità per cui semplicemente accompagna. Non fa nemmeno più problema. Il fatto che ci sia rende semplicemente più bello il viaggio. E poi, nell’”Autopsia dell’ossessione” c’è una specie di addio, come avrai facilmente visto. Per cui di queste tappe tu conosci la seconda e la quinta.
L: Ma una continuità nel personaggio e nella persona Walter Siti è ininterrotta, dalla “Trilogia” ad “Autopsia”.
W: Sì, sì. Ho l’impressione che fondamentalmente ho scritto un romanzo solo.
L: Perché è interessante la linea di tendenza che sembra emergere in questi tempi e contempla due casi italiani particolarissimi: Antonio Moresco e Walter Siti. Sono in tanti che stanno scrivendo un unico romanzo. Anche Stephen King sta scrivendo un unico romanzo. Stephen King, andando verso la fine di questo romanzo unico chiama in causa Stephen King, come personaggio. Ellis sta scrivendo un unico romanzo e al termine di questo unico romanzo mette Ellis, come personaggio.
W: Si. Almeno degli ultimi due. Sia “Imperial Bedrooms” che “Lunar Park”.
L: Houellebecq non sta scrivendo un unico romanzo, ma ha lasciato emergere una linea di continuità che conduce a Michel Houellebecq. In quel caso a un Michel Houellebecq morto.
W: In “La carta e il territorio”.
L: Sì. David Foster Wallace non ha scritto un unico romanzo, ma anch’egli ha lasciato, differentemente, emergere una linea di continuità, forse addirittura tra opera e vita, che io speravo finisse in tutt’altro modo…
W: E finisce.. invece è finita…
L: (Ok, qua mi stavo mettendo a piangere e per questo Siti non ha potuto portare a termine la frase, nda.) Però, in una riflessione finale, e totale, sul suicidio, nel racconto “Caro vecchio neon”, che sta in “Oblio”, compare ancora una volta il nome dell’autore. Walter Siti fa un’altra cosa: fa i conti col proprio nome all’inizio, in origine. Prima di far partire la narrazione fa i conti col proprio nome. Lo fai davvero? È davvero possibile fare fino in fondo i conti col proprio nome?
W: Guarda, io ho l’impressione che all’inizio di “Scuola di nudo”, dove chiaramente il protagonista si chiama Walter Siti… non so se subito compaiano nome e cognome, se compaia solo il nome o solo il cognome…
L: Credo che compaia prima il cognome in alcuni dialoghi…
W: Ah, sì. Perché sono dialoghi accademici. Ok, ok. Però è come se vedessi una specie di… due linee che si incrociano a metà: da una parte sono presenti sia il nome che il cognome, nella “Trilogia” e dopo quasi più. Nel senso che nel “Contagio” soprattutto lo chiamano “il professore”, compare qualche “Ah Wà”, e alla fine è semplicemente “il vecchio”. Mentre in “Autopsia dell’ossessione” il Rivale mi sembra che venga sempre chiamato Rivale, non c’è più il nome.
L: Sì, viene chiamato “il Rivale”, “il Grande Nemico” o “il professore”.
W: Quindi né Walter né Siti. E la cosa che sto cominciando a scrivere adesso è totalmente in terza persona, totalmente oggettivata. Per cui lì proprio veramente non c’è neanche il rischio. Nel senso che l’Io compare soltanto, ma compare in forma di intervistatore del personaggio principale e quindi forse non verrà neanche chiamato con un nome. Da una parte c’è questa linea in cui si parte da una identificazione -chiamiamola così… -“autobiografica” molto forte, con nome e cognome, che poi piano piano tende a sparire. Però l’altra linea che ti dicevo è quella, invece, della verità privata. Allora, all’inizio io ho cercato di difendermi molto. In “Scuola di nudo”, a Walter Siti ho cercato di far fare delle cose che io non avevo fatto e anche, soprattutto, credo di avere nascosto alcune cose. Cioè, alcune verità profonde -non so se dire verità, ma insomma… -alcune mozioni profonde che mi appartenevano ho fatto in modo che non fossero dentro quel Walter Siti là. Per cui si può rispondere all’eterna domanda: “quanto c’è di suo nel personaggio, quanto si riconosce, eccetera?”. Io un po’ ero in falsa coscienza, ma non tantissimo, quando dicevo: “siamo parecchio diversi.” Perché appunto, soprattutto, c’era un fenomeno di omissione. Mentre ho l’impressione che adesso, per esempio, non tanto nel personaggio del Rivale quanto nel personaggio di Danilo sono emerse quelle cose che allora omettevo. Quindi diciamo c’è una specie di avvicinamento ad alcune verità profonde del personaggio quanto più ci si allontana dal nome. In questo senso dicevo due linee…
L: Ci sono almeno due cose che mi vengono in mente a questo proposito. Se è vero che come ha detto Francesco Orlando la letteratura può essere il luogo privilegiato del rimosso…
W: Sì…
L: Lo può essere e spesso, di fatto, lo è.
W: Sì.
L: A me verrebbe da dire che la scena più vera, più autentica di “Scuola di nudo” è quella in cui Walter Siti avvicina il proprio pene alla bocca del neonato.
W: Ok.
L: Cominciando a forzarlo.
W: Mi ricordo, sì.
L: Lei è d’accordo con un’affermazione del genere?
W: Non lo so. Parto da dati empirici. Quella scena per esempio è una delle scene che vive il Walter Siti di carta e che non ha mai vissuto il Walter Siti in carne e ossa, fattualmente. Però, tenendo conto che -e di quello me ne sono accorto molto dopo- questa presenza di neonati e di bambini è abbastanza ricorrente nei miei libri, cioè questa specie di desiderio di forzare o di uccidere un bambino, non so perché…
L: Conosce il racconto di Bukowski “Il demonio”?
W: No.
L: È un racconto in cui un alter ego dell’autore, forse ancora più vicino allo scrittore empirico del tuo Walter Siti, compie violenza sessuale su una bambina un po’ più grande, non un neonato. E Bukowski ha detto che è una cosa con cui soltanto la verità della letteratura poteva fare i conti e quindi si sente un privilegiato a poter fare i conti con un’esperienza che diventa…
W: Io non ho letto questo racconto di Bukowski, però mi ha fatto un’enorme impressione il pezzo dei “Demoni” di Dostoevskij, quando c’è la confessione di Stavrogin alla fine del romanzo, dove Stavrogin racconta la violenza che lui ha fatto a questa bambina di sette o otto anni sotto al tavolo e mi ricordo che mi fece molta impressione anche perché Dostoevskij ha fatto un’operazione che mi colpiva molto anche dal punto di vista strutturale: non l’ha messo dentro al romanzo. Come se fosse qualche cosa di talmente vero ma anche di talmente eccessivo che se stava dentro al romanzo l’avrebbe lacerato, l’avrebbe come spaccato, e quindi l’ha messa in appendice come una confessione che Stavrogin ha lasciato. Tornando invece a questa cosa del bambino piccolo, del neonato, quando me ne sono accorto mi sono anche un po’ chiesto cosa voleva dire. Escludo che sia, nel senso banale, un effetto di pedofilia. Perché non corrisponde, almeno a livello… -per quanto io possa arrivare giù…- ai miei desideri. Io da quando avevo vent’anni ho sempre avuto un modello fisso di uomo desiderabile, che è intorno a i 35 anni. Quando ne avevo 20 io, desideravo i 35enni. Adesso che ne ho 65 io, continuo a desiderare i 35enni. Per cui…una specie di linea piatta e io invece vado sopra o sotto a seconda della mia età.
L: È quasi uno stupro di se stessi, in realtà.
W: Ecco, in realtà io ho l’impressione che quel bambino…
L: Forse un neonato è lo specchio migliore…
W: Quel bambino che io cerco o di violentare o di uccidere a un certo punto non mi ricordo dove, dico: “pensavo di uccidere un bambino e invece ho finito per uccidere una madre”. Forse nello stesso “Scuola di nudo”. È come se fossero, appunto, dei conti che devo fare col me stesso neonato, col me stesso…
L: Anche perché non credo che sia tanto nascosta questa faccenda, visto che Luca, il neonato, lo specchio che si pone, è il figlio della figura identificata come “il Padre”.
W: Ah, ecco. Ok. E poi, oltretutto, in “Autopsia dell’ossessione” l’ultima foto, cioè quella del bambino piccolo col vestito a pois, nella fiction è Danilo da bambino ma ovviamente è una mia foto di quando avevo 4 anni.
L: Certo.
W: insomma credo che sia abbastanza indicativo…
L: Questo è uno degli effetti di senso più forti che ricorrono e secondo me progrediscono nel corso dell’opera: quello dello squarcio. Si apre un velo in cui la persona che scrive ci parla da prima del suo nome, ci parla direttamente oltre il suo nome, come “da un deserto a un altro deserto”, per dire… dal deserto prenominale dello scrittore al deserto prenominale del lettore!
W: Diciamo che il nome e cognome per me è stato quasi un veicolo, come se fosse il cavalluccio che tu usi per entrare dentro una zona proibita, in qualche modo. E probabilmente mi sentivo all’epoca troppo poco ‘narratore con la patente’, troppo poco autorizzato per cominciare a scrivere in terza persona sperando che il mio Io profondo potesse finire dentro là, perché ero abituato a pensare che solo i grandi narratori lo possono fare. Lo può fare Tolstoj, lo può fare… ma io chi sono per… e quindi il partire, invece, da uno che si chiamava come me probabilmente è stato un po’ un ponte levatoio che mi ha portato in quei territori là.
L: Bisogna poi romperlo il cavalluccio, una volta che ci si è saliti sopra?
W: Io dopo ne ho sentito il bisogno. Però dopo tre libri.
L: E questo mi porta alla seconda questione che mi veniva in mente e che, per chiarire, devo riferire all’opera di Houellebecq.
W: Ok.
L: Anche Houellebecq usa un’identificazione per diventare scrittore, visto che non ci si sente di natura, all’inizio. Saltando quello che fa in “Estensione del dominio della lotta”, in cui l’identificazione col protagonista è, diciamo, professionale, fondamentalmente. C’è un vago…
W: Con quello brutto che va in giro ad aggiustare computer! (Ride)
L: Sì (rido). C’è un vago riferimento, sì, all’area tecnica…che rimanda all’area professionale di appartenenza di Houellebecq. Andiamo al cuore, secondo me, che sta… il luogo letterario in cui lo scarto avviene è “Le particelle elementari”. Nelle “Particelle elementari” sono palesi due figure dell’autore: Bruno e Michel.
W: Che sono i due fratelli.
L: Che sono i due fratelli. Houellebecq autorizza il lettore a una differenza nell’identificazione, una differenza di carattere, diciamo, ‘quantitativo’. Vale a dire è più Houellebecq uno dei due perché si chiama Michel, banalmente.
W: Certo.
L: Allo stesso modo in “Autopsia” dovrebbe ‘essere più Siti’ il professore, perché fa il professore.
W: E perché ha scritto i romanzi che io ho scritto, eccetera eccetera…(ride)
L: Tuttavia, ‘è più Siti’ Danilo.
W: Non c’è dubbio. Sì, sì. Beh, diciamo che attraverso Danilo ho raccontato evidentemente un lato sadico del mio desiderio che finché parlavo in prima persona non veniva fuori. Non veniva fuori proprio perché non ha avuto attuazione pratica nella mia vita e quindi, finché mantenevo lo schema biografico, sarebbe stato per me veramente un po’ troppo… non so come dire… ‘da filibustiere’ inventare a Water Siti anche una vita sado-maso che non avevo. Tant’è vero che per scrivere poi invece l’episodio del locale sado-maso in “Autopsia” ho dovuto informarmi a lungo presso un amico che lo fa. Perché non sapevo proprio nemmeno come erano fatti i posti. Non sapevo le reazioni, non sapevo questa cosa del codice vestimentario, eccetera. Quindi, se avessi voluto, per esempio in “Scuola di nudo” o più avanti, inventare a Walter Siti quella vita lì, ho l’impressione che l’avrei talmente reso cinico che poi non avrei avuto la possibilità di farlo parlare invece con quella affabilità, quella capacità di entrare anche negli altri, eccetera… che ha. E probabilmente ho avuto bisogno di oggettivarlo in un personaggio che invece io odiavo perché allora anche se era cinico non me ne importava niente, non mi bruciava altre possibilità del personaggio. Penso che il processo sia stato un po’ quello.
L: Tu ti ritieni in controllo dei tuoi personaggi e del tuo nome?
W: Succede questo in genere: che quando comincio a scrivere comincio in un modo parecchio controllato. Cioè: non comincio se non ho chiare dentro di me almeno due o tre -diciamo così ‘sur-determinazioni’ sia del personaggio che della trama. In genere faccio così: per un anno o due accumulo materiale e mentre accumulo materiale non so quale sarà per me più significativo o meno significativo. Comincio a pensare che alcune cose sono significative e quindi entreranno nel libro quando si sur-determinano, cioè quando una cosa o un episodio invece che avere un senso comincia ad averne due, tipo uno reale e uno simbolico. Oppure -non so- uno proiettato all’esterno e uno proiettato all’interno della psicologia. Comincio ad averne due, allora è come se si accendesse una luce e dico: “allora questa cosa può funzionare, può servirmi per il libro!”. Quindi quando comincio a scrivere a me sembra di essere più furbo dei miei personaggi, di sapere più cose dei miei personaggi, quindi di essere abbastanza lucido. Invariabilmente però capita che o a libro finito o a libro a tre quarti, quindi molto molto avanzato, a un certo punto mi viene come una specie di scossa e dico: “cacchio! Ma allora quella cosa lì l’ho fatta per questo!”, cioè mi rendo conto che c’era una cosa di cui ero inconsapevole. E in genere per me quando succede è il segno che il libro ha funzionato. Se il libro dicesse soltanto quello che avevo preventivato di metterci dentro all’inizio mi sembrerebbe un fallimento.
L: Sarebbe poca cosa.
W: Sì. Quando invece vedo che a un certo punto..“oh cavolo!”.. eh! Allora è come se qualche cosa cominciasse a bruciare davvero. Quindi non sono di quegli scrittori che non sanno proprio niente di quello che fanno -come pure penso ce ne siano-, che scrivono e lasciano che l’inconscio sia lui a mettere a posto le cose. Io, in genere, essendo appunto uno che tende anche nella vita a preventivare tutto, parto pensando di sapere, però poi c’è sempre -direi almeno quando i libri vengono licenziati- c’è sempre qualche cosa che non era quello che io avevo preventivato.
L: E fa male?
W: No, no. Perché invece a quel punto anzi è una scoperta. E quindi, buona o cattiva che sia, è comunque una cosa positiva, insomma.
L: No, ma il processo di… non la chiamerei autocoscienza, ma di messa a nudo delle falsificazioni che ogni autocoscienza inevitabilmente comporta, quanto fa male a chi lo compie? Quanto va oltre il dolore preventivato che una scrittura così non può non implicare?
W: Mah, guarda, ho l’impressione che qui contino molto le date. Conti proprio anche l’età anagrafica. Nel senso che all’inizio, cioè con “Scuola di nudo”, quello che il libro aveva tirato fuori di me ha fatto molto male. Perché ero ancora in un’età –avevo, quando ho cominciato a scrivere, 35 anni e poi, vabbè, ci ho messo molti anni e quindi l’ho finito che ne avevo già 47- però ero ancora a un’età in cui uno, come dire, si è presentato al mondo con una certa faccia e ci tiene a mantenerla, no? Quella faccia. E quindi, quando poi il libro ho capito che me l’avrebbe fatta perdere, quella faccia, non è stato facile. Io proprio ricordo che quando ho consegnato il libro a Einaudi, diciamo la versione definitiva, andai su dal mio amico Paolo Fossati, che mi fece dormire a casa sua. E nel pomeriggio avevo consegnato il libro in via Biancamano. Poi ho dormito da lui. La mattina dopo, svegliandomi in questa stanza che non era la mia, la reazione è stata proprio… quella di Lucia dopo la notte in cui ha fatto il voto! Cioè: “oddio, cosa ho fatto!”. Perché mi sono detto: “a questo punto non posso più tornare indietro. Mi sono tagliato i ponti. Poi leggeranno questo libro e a questo punto che succederà della mia dignità universitaria? Che succederà dei miei rapporti con i colleghi? Che succederà in famiglia?”. E quindi lì veramente è stato come passare un fosso e quindi anche il dire: io non sono più quello che poteva -con l’erudizione, con l’essere bravo a scuola, con la cattedra universitaria e le altre cose- nascondere una parte di me sociopatica, perché ormai il libro l’ha tirata fuori e quindi, sofferenza per sofferenza, mò a questo punto devo tenere botta! Quindi all’inizio effettivamente è stata una cosa abbastanza dolorosa. Fino, direi, a “Troppi paradisi”. Con sfumature diverse. A un certo punto il dolore è stato più quello di infliggere agli altri un dolore. “Scuola di nudo”, per esempio: il personaggio di Ruggero è stata una cosa che poi mi ha causato anche una separazione di molti anni con una persona che, giustamente, non mi voleva vedere più. Fino appunto a “Troppi paradisi” e all’idea di quello che sarebbe successo al referente empirico di Marcello, a casa sua, a sua moglie, la sua famiglia e tutto il resto. Quindi la cosa si era un po’ spostata. Più in una preoccupazione nei confronti delle persone alle quali volevo bene, più ancora che a me. Adesso direi che la cosa è un po’ diversa, nel senso che è come se il dolore fosse tutto scontato. Cioè: abbiamo già dato, non so come dire. Io penso che più dell’attuale situazione in cui la speranza è praticamente ridotta a zero, la solitudine è sicura, a quel punto c’è abbastanza poco da scoprire. Per cui scoprire invece le motivazioni psicologiche, andare a fondo dei desideri, vedere anche il loro aspetto squallido, volgare, kitsch… è semplicemente una chiarezza in più. Per cui, più che dolore, a quel punto c’è un po’ l’impegno del lavoro ben fatto. Cioè, se ho preso questa strada che voglio un po’ capire quali sono realmente le strutture del mio modo di stare al mondo, di conoscerlo, di essere felice, a quali prezzi o con quali violenze, eccetera… facciamolo fino in fondo, però! Non è che questo mi procura ulteriore dolore. (Pausa). Penso sempre di più a cose tipo la morte. Però questo penso che sia normale per uno che si avvicina ai 65 anni.
L: C’è un’altra cosa che mi viene in mente di continuo a proposito della biforcazione che segue la scrittura del nome. Noi abbiamo una scrittura del nome ripartita in mille pagine che vanno in fondo… in effetti tutte queste domande potrebbero avere come unica risposta un bel “vatti a rileggere i libri e lo saprai!”
W: No, vabbè. (Sorride)
L: Ma succede una cosa, secondo me. Voglio sapere se lo pensi anche tu. Dopo averci messo mille pagine per dire: “io sono Walter Siti”, mi sembra che la pretesa di “adesso parlerò degli altri” si rovesci in “datemi una maschera e vi dirò tutta la verità”, che immediatamente si rovescia in “me ne servono almeno due”: quella dell’antiquario e quella del professore. Ha un senso questa progressione?
W: Mmmh…sì. capisco quasi tutto quello che hai detto e effettivamente è vero che mi ci sono volute mille pagine non tanto per dire “mi chiamo Walter Siti”, perché questo in realtà l’avevo detto…
L: “Io sono Walter Siti”, non “mi chiamo Walter Siti”.
W: Esatto. Farei un’altra correzione…
L: Anche: “noi siamo Walter Siti”…
W: Più che “io sono Walter Siti” direi: “Walter Siti è questo qui”. Cioè per accettare in qualche modo che non devo per forza nascondere delle parti di me perché la società mi accolga. Il che evidentemente presuppone che per me la scrittura è stata molto violentemente un biglietto da visita. Cioè quando ho cominciato con “Scuola di nudo” è successa una cosa che poi in effetti ho anche un po’ trasposto nel romanzo. Cioè che qualcuno lo lesse quando ancora non era pronto. E fece la cattiva azione di farlo leggere a qualcun altro. Questa cosa io l’ho presa come… credo che sia riferita a Fausta nel testo…
L: Nel testo poi viene detto che è stata rubata…
W: Esatto.
L: Matteo.
W: Sì, non è successo niente di tutto questo, naturalmente. Ma di fatto a livello empirico è successo che una persona di cui mi fidavo molto a cui avevo dato alcune pagine le ha fatte leggere a qualcun altro e io ho preso questa cosa come un tradimento terribile. Tanto è vero che quella persona l’ho cancellata completamente dalla ‘cosa’ dei miei amici il giorno dopo e io non sono uno che in genere prende decisioni così. Cioè, io vado d’accordo anche col Demonio. Non me ne importa niente. Se uno mi dice: “ho ammazzato qualcuno”, rispondo: “vabbè, parliamone”. Insomma, non sono uno che tronca le cose. Invece quella cosa lì mi sembrò peggio ancora di aver ammazzato qualcuno. Non tanto perché aveva fatto leggere in giro delle cose indiscrete su di me, ma perché lo stile secondo me non era ancora pronto. Cioè, perché la scrittura non era pronta per difendermi. Quindi ho capito fin dall’inizio che per me il fatto che la scrittura potesse essere accettata come una scrittura letteraria mi serviva come, appunto, biglietto da visita per dire “va bene, io ci avrò un sacco di magagne però adesso se ve le dico e se ve le dico così, mi potete accettare lo stesso?”. Quindi chiaramente il procedimento all’inizio è stato quello per cui, arrivato alla fine della “Trilogia”, il discorso finale è proprio sostanzialmente questo: “adesso vi ho detto tutto. Cioè Walter Siti è questo qua, mò bbasta!” (ride). Questo “mò bbasta” era relativo all’essere accettato in società, diciamo così. Però, poi, una volta che in società ci sono, allora adesso ho voglia di raccontare delle storie come tutti, mettendoci dentro ovviamente il mio punto di vista, questa è…
L: Ci sono però dei lunghi momenti in cui, più che accettare la società, la tragedia, il dramma sembra non riuscire a rifiutarla.
W: Non riuscire a rifiutarla…
L: Sembra che sia quello il gesto di impotenza, non riuscire a rifiutare la società.
W: È un po’ la stessa cosa. È chiaro che se uno si sente… è il tema della misantropia, no? Cioè, se uno si sente non accettato, a quel punto il gesto più spontaneo sarebbe quello di Alceste: me ne vado in un deserto e la società non ha più nessuna importanza per me.
L: È anche il silenzio di Rimbaud…
W: Esatto, quello è il gesto che io non riesco a fare, evidentemente. Che il mio protagonista non riesce a fare. E quindi è sempre lì a piatire… contro la società, come se Alceste continuasse a frequentare la corte cercando di far vedere che lui è uno diverso ma che vorrebbe, però, loro gli dicessero: “va bene così”. Quindi il gesto del misantropo non mi viene perché evidentemente sono un animale sociale. Però sono un animale sociale che pensa di avere un baco, qualcosa che non funziona. E quindi ci ho messo molto molto tempo -appunto, più di mille pagine- per dire: “vabbè, adesso a questo non ci pensiamo più. E andiamo avanti!”. Appunto, ho bisogno di maschere per raccontarvi delle altre cose. Da questo punto di vista penso che veramente sia cambiato qualcosa, dopo la “Trilogia”, in me. Sia nella scrittura sia psicologicamente. Ho cominciato a fregarmene un po’. Sì. Voglio dire, appunto, dell’accettazione di tutte queste cose qui non me ne importa più niente e allora sta emergendo invece un’altra cosa che credo ci fosse fin da “Scuola di nudo”. Però era tenuta molto a freno… tu facevi riferimento a Houellebecq. Credo ci sia una differenza forte, cioè l’attrazione per Balzac. Cioè la capacità di raccontare le cene, la vita degli altri… con molto gusto, anche mimetico, che in lui c’è fin dall’inizio ed è la cosa che in qualche modo gli dà la garanzia che lui è scrittore fin dall’inizio. Mentre io ci sono arrivato piano piano. Cioè quando –penso che all’altezza di “Un dolore normale”- uscì una recensione, non ricordo neanche più di chi… che diceva una cosa del tipo “che ottimo scrittore sarebbe Siti se raccontasse -appunto- le cene dei meridionali, le cose… eccetera eccetera e non parlasse di sé”. Al che, lì per lì, lo presi come una grande cazzata cioè: “no, veramente non capisco”. E però, penso che c’era un nucleo di verità, cioè che in realtà questa mia ‘cosa’ – come dire, proprio veramente – ‘cosa da scimmia’, di imitare i modi di parlare, i dialetti, le inflessioni, gli idioletti delle persone…è una cosa che mi dà molto piacere fare, però era un piacere che tendevo sempre un po’ a reprimere perché era come se fosse schiacciato da cose più importanti.
L: Ah, ecco. C’è una cosa che mi torna in mente continuamente. L’uso del lapsus, gettato lì all’inizio di “Troppi paradisi”: “la mia prima mediocrità è dunque caratteriale…”
W: Sì, sì. Ce ne sono due o tre.
L: “…ed è epica, voglio dire etica” questo lapsus in particolare quanto è stato riflettuto? Quanto ci si è pensato prima di tirare in ballo questa parola che secondo me ha a che fare con quello da cui siamo partiti, vale a dire la necessità per uno scrittore di dire il proprio nome oggi?
W: No, in realtà non è stato riflettuto, quella cosa lì non è stata riflettuta. Quindi probabilmente è venuta così da sola.
L: È davvero un lapsus?
W: No. Allora, il metterci dentro, lì, dei lapsus in questo esordio era previsto e calcolato e veniva dalla Rosselli, sostanzialmente. C’è un famoso articolo di Pasolini sui lapsus della Rosselli, da cui appunto ero partito perché mi pareva che funzionasse con questa specie di doppia emozione che in quel momento il protagonista ha di mettersi in primo piano e però prendersi anche in giro. E allora la lingua ti si inceppa e quindi ti prendi in giro perché ti rappresenti mentre stai avendo un lapsus. La cosa era calcolata. Ma non quale lapsus. Cioè, quello non l’ho calcolato: quali fossero le parole che facevano lapsus non l’ho calcolato. Probabilmente è venuto così nella scrittura.
L: Sì. Perché c’è anche… -ci sono mille possibilità di intendere- però una di queste è la trasformazione della frase “voglio un eroe” in “voglio essere un eroe”…
W: Eh, sì. Però quello è stato totalmente inconsapevole.
L: La mia concentrazione va via se non fumo, dove vado? Vado in balcone?
W: Basta che non vai in camera da letto, non c’è problema. Solo prenditi un coso, un portacenere. Quello lì che mi son fottuto all’hotel Byron e c’ha anche una frase di Byron sotto. Me lo sono rubato in un albergo di Lido di Camaiore – credo – Viareggio…
L: Possiamo scriverlo? (Rido)
W: Si certo, tanto li rubano tutti. (Ride)
L: Non lo stai dicendo solo per confermare la caratteristica cleptomane del personaggio?
W: No, no! Io, poi, non sono tanto cleptomane. Però… questo era… siccome l’hotel si chiama Hotel Byron, c’erano questi portacenere che portavano ognuno una frase di Byron e allora me lo sono messo in borsa. Credo che sia previsto dalle dirigenze degli alberghi che si fottano i portacenere.
L: Il modo in cui parli della cleptomania in “Scuola di nudo” è molto interessante. Soprattutto a proposito del rapporto con la persona giocata come antagonista, con Matteo, col Cane. Perché Walter Siti tende sempre a dileggiare se stesso -spesso, non sempre- e a porsi da inferiore a superiore, salvo poi fargli un culo come una capanna nella famosa scena della conferenza su Leopardi! (nda: p.293). Però questo Walter Siti che sta scrivendo e che mentre scrive descrive, se come inferiore si attribuisce un sacco di furti piccoli e grandi, comunque si caratterizza come cleptomane.
W: Sì, sì.
L: Dopodiché si sente ancora più meschino perché pensa di accusare Matteo di avergli rubato il manoscritto. Però Matteo personaggio, per mantenere la propria cinica superiorità, non potrebbe essere un cleptomane, uno che fa un furtarello così meschino. Cioè avrebbe fatto un’azione più cattiva e più grande. Pur di mantenere questo statuto al personaggio di Matteo, Walter Siti si convince che non è stato Matteo a rubargli il manoscritto. Dopodiché, però, nel romanzo esce fuori che è stato Matteo. Quindi si denuncia un po’ un’impossibilità di leggere veramente il mondo e le persone. C’è del vero in questo? E, quindi, là ancora una volta Walter Siti si trova davanti all’anomia, all’illimitatezza, all’impossibilità di controllo della realtà. Le persone non diventano personaggi, lui stesso non diventa personaggio, è anche questa la tensione epica/etica? Secondo me è questa tensione che porta a cercare di risolvere il mondo nel proprio nome, affrontandolo col proprio nome. La particolarità assurda di partire dal risolvere il proprio nome e poi andare verso il romanzesco classico…
W: Sì, sì. Quest’ultima cosa, sì, la capisco. Effettivamente il nome è stato -come ti ho detto- un po’ un marchingegno per arrivare al romanzo. L’autobiografia dentro la letteratura è un’operazione che compare nel “Convivio”, o addirittura nel “De vulgari” e che pure deve essere difficile: non si riesce mai a distinguere con nettezza il se stesso-personaggio da un residuo di se stesso/se stesso: nemmeno l’immenso Dante lo fa: da una parte c’è il Dante/personaggio della “Commedia”, ma come la mettiamo con il Dante che è coerente con “l’altro Dante”? C’è una ridondanza, un’alea, quello che con termine di falegnameria si chiamerebbe “un gioco”. In quel gioco si nasconde la poca voglia di negarsi ogni via d’uscita.
L: Perché i marchingegni mi sembra che portino in sé sempre… sono tanti i congegni narrativi, ma portano in sé, in nuce, la necessità di rompersi, sempre.
W: Però, su questa cosa, invece…la cleptomania. Penso che lì forse ci sono due cose che si sovrappongono: da una parte è vero che in “Scuola di nudo” appartiene a una serie di gesti cattivi, chiamiamoli così, o gesti disonorevoli che io attribuisco al personaggio di Walter Siti. E anche con una specie di accanimento, quasi. Il veleno per i topi messo sul muro dell’asilo infantile, tutte queste cose qui…come per dire: “guardate che io sono uno cattivo!”, no? E quello credo che appartenga soprattutto a “Scuola di nudo”. Dopo quella cosa non c’è quasi più..
L: Però questo piccolo crollo che è rappresentato dal fatto che Matteo in realtà è molto più complesso di qualsiasi rappresentazione che se ne può dare…
W: Certo.
L: …Non corrisponde in qualche modo alla denuncia che niente si può rispecchiare davvero in letteratura? Anche nel senso che gli specchi si rompono sempre per forza…
W: Questo penso che abbia a che fare un po’ in generale col mio modo di scrivere e col mio modo di intendere il realismo. Cioè, tutte le volte che io provo… – perché sono molto tentato di farlo. Ti dicevo prima… il fascino per Balzac… -sono molto tentato dalla riproduzione del reale. Però, da una parte il realismo è come se mi slittasse sempre in iperrealismo e quindi per ciò stesso denunciasse la propria essenza di gioco, perché è chiaro che il trompe l’oeil è fatto proprio come un gioco, no?, come un trucco. E quindi il realismo piano piano scivola in un trucco, per cui si autodenuncia. Mentre il realismo vero non dovrebbe autodenunciarsi, se vuole veramente essere realismo fino in fondo, cioè “uno specchio portato per le strade”, come diceva Stendhal. E quindi da un lato è come se la mia scrittura tendesse a distruggere il realismo per forza di realismo: diventa talmente mimetica che alla fine si vede che diventa un gioco, un trucco. Da una parte. Dall’altra, è come se fosse sempre insufficiente, cioè il realismo funziona solo e perché ti fa vedere per un attimo la realtà come sarebbe se noi non avessimo convenzioni per interpretarla. E, però, appunto, quella realtà là noi non abbiamo modi per scoprirla se non per dei lampi improvvisi. A un certo punto l’ho scritto in quella cosa sul realismo che ho fatto lì a Carrara, a Sarzana al festival della mente. Una delle cose che mi ha sempre colpito molto, parlando di realismo, è un passo di Dickens citato da…come si chiama quello il tizio di Padre Brown, l’autore di Padre Brown, come si chiama, Chesterton? Sì, Chesterton. Che ha scritto un libro su Dickens e a un certo punto cita questo passo di Dickens, non mi ricordo da dove viene, è una cosa… ah, sì, un ricordo autobiografico della giovinezza di Dickens, dove lui dice che quando era povero e andava in un caffè a passare un po’ le mattinate cercando appunto di consumare poco, mangiare poco, insomma la vita scannata che faceva prima di avere successo letterario eccetera, stava in un caffè dove lui leggeva sul vetro della porta “moor eeffoc” e lo colpiva, perché erano due parole che non avevano senso. In realtà erano “Coffee room” scritto dall’altra parte, per cui chi entrava nel bar leggeva “Coffee room”, ma lui invece stando dentro leggeva questa scritta misteriosa e allora effettivamente mi colpisce il realismo in quei casi lì, quando di colpo ti fa vedere una cosa che ti sconcerta e non sai dove mettere perché li per li le tue griglie di sistemazione del reale non funzionano, no?, e quindi è come se tu lo vedessi da dietro, però appunto se quella cosa là -chiamiamola, che ne so, una specie di noumeno?- tu te la cogli solo in quegli scatti lì… eh, allora vuol dire che effettivamente è una cosa che tu non saprai mai come è fatta davvero! No? Perché ogni realismo è un effetto di realtà e quindi è un modo, semplicemente, di trattare la realtà. Ma non ‘la realtà’, quella con la erre maiuscola, diciamo. Quindi, effettivamente, queste mie pulsioni mimetiche, realistiche…è vero: sono una specie di riconoscimento che invece la realtà è inconoscibile.
L: È vero, infatti io avevo in mente di chiederti…
W: Però, volevo dire una cosa a proposito della cleptomania. Appunto in “Scuola di nudo” rientra in una cosa più ampia che è quella del fingersi più cattivi di quello che si è per tutti i meccanismi psicologici che tu hai detto. Però quella permane anche in tutti gli altri libri, permane fino all’ultimo…
L: Aumenta…
W: Sì, aumenta o certe volte ci si accenna in modi un po’ scherzosi. Marcello (nda: in “Autopsia” si chiama Angelo, ma non correggerei il lapsus a nessun prezzo!) anche in “Autopsia” dice a un certo punto “l’ho visto, è stato velocissimo, si è infilato una cosa intasca”… in quel racconto lì, che sto scrivendo adesso per questa versione italiana di “Granta” -adesso Rizzoli ha fatto questa versione italiana di quella famosa rivista americana che si chiamava “Granta”… e il primo numero è sul lavoro- e anche lì il protagonista, che è appunto un vecchio signore non nominato, che di fatto è una specie di mia ennesima controfigura, a un certo punto si prende uno di quegli insulsi souvenir e se lo infila in tasca, ma una roba da due euro, quindi proprio cleptomania allo stato puro, non è che i due euro servono…
L: C’è una cosa interessante che ci accomuna, a questo proposito. A un certo punto nella “Trilogia” lei dice, tu dici, ho rubato, eh, niente! Funziona meglio il lei, per me…
W: E fai come te pare!
L: …tu dici: “Ho rubato l’Etica di Spinoza”.
W: Questo non me lo ricordo…
L: Questo mi ha ricordato quando io a sedici anni, dopo aver letto “Trainspotting”, sentivo che si poteva risolvere il rapporto col mondo identificandosi col protagonista, perché mi sembrava uno che aveva capito proprio tutto e quindi bisognava rubare i libri, per scelta etica, e rubai la “Morale” di Pascal.
W: E però, vedi, due cose etiche (risata)! Ecco, questa cosa qui, invece, il permanere di questo tic, appunto, della cleptomania, che in effetti tra l’altro è stato anche biografico per un po’ di anni e adesso non lo è più, perché insomma… francamente, siccome comincio ad essere un po’ noto… mi dispiacerebbe che mi beccassero (risata) con un torre Eiffel in tasca! Una roba del genere e quindi, vabbè, sono molti anni che non lo faccio più. Però è rimasto invece come tic del personaggio perché ho l’impressione che illustri una cosa psicologica abbastanza semplice, in fondo, cioè che è un personaggio che è anche, dopo che ha risolto alcuni problemi suoi di accettazione, dopo che bene o male non si sente più così espulso ed escluso com’era all’inizio, eccetera… però è come se si sentisse sempre in debito nei confronti del mondo. Quindi: “il mondo mi deve comunque qualcosa e allora io ogni tanto me ne approprio perché ne ho diritto!”.
L: In credito, quindi.
W: Sì, sì. Sono in credito nei confronti del mondo e quindi me ne approprio… ogni tanto gli rubo un pezzettino perché m’ha rubato talmente tanto lui, no?, è un po’ una cosa così, insomma.
L: È un’espressione che usa anche un altro scrittore che ha fatto del proprio nome la partenza della sua avventura narrativa.
W: Cioè?
L: Dave Eggers.
W: Che non conosco.
L: Dave Eggers parte dall’”Opera struggente di un formidabile genio” raccontando cose assolutamente vere e fa anche un’altra operazione che si ritrova nei tuoi libri. Vale a dire usare come spazio per la più grande espansione creativa le parti paratestuali, attribuzione dei diritti d’autore… che è fantastica, dice “la casa editrice che pubblica questo libro ha un fatturato che è più grande di tutte le nazioni dell’ex Unione Sovietica messe insieme eccetera, però non ha nessuna influenza nelle piccole vite di persone che quando fanno sesso immaginano di viaggiare nel cosmo” e parte da là con un’avventura autobiografica incredibile… dalla semplice attribuzione dei diritti d’autore e…ho dimenticato quello che stavo dicendo…
W: Mi dicevi che questo Dave Eggers usa anche lui…
L: Il proprio nome!
W: No, ma questa cosa di dire “il mondo mi deve qualcosa”.
L: L’affermazione rabbiosa “noi siamo in credito”. In quel caso è legata alla vicenda autobiografica della morte dei genitori. Quindi in tutti e due i casi si rivendica il proprio nome, però Eggers lo fa al momento giusto, quando fa ancora in tempo a prenderselo, da ragazzo, è ventiquattrenne quando comincia la narrazione. Walter Siti sembra che viva nel rimpianto dolorosissimo di non esserselo…
W: Di essere arrivato tardi.
L: Di essere arrivato sempre tardi.
W: Certo.
L: Eppure lo spirito di ribellione adolescente che sta prima delle categorie -e che ha dentro una vena potente, infiammata, vulcanica- sembra intatto. Quando si arriva a “Scuola di nudo” ci sono i fuochi d’artificio e i fuochi d’artificio sono meravigliosi.
W: Ho dovuto -credo che il personaggio lo dica, non so dove, ma lo dice…- ripensando appunto a “Scuola di nudo”, dice, gli viene in mente che quel signore lì era molto giovane, “c’avevo un sacco di energia”, qualcosa del genere… perché, in effetti, ripensandoci adesso, lo penso come un libro anche se poi l’ho scritto intorno ai 40 anni, fondamentalmente – però lo penso come un libro che ci voleva proprio una fame di vita tremenda per scriverlo, che io adesso non avrei più.
L: Mentre tutta questa disillusione, stanchezza, esasperazione traspare in maniera così piana, a me sembra che esca fuori anche un’altra cosa: l’inveramento di una frase abusata che dice che non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice.
W: Certo.
L: A me sembra che ci sia questa compresenza degli opposti, il personaggio di Siti assomiglia a quello di Houellebecq, troppo stanco per vivere, troppo consapevole per vivere, però più di Houellebecq ha la capacità di…
W: Forse c’è più infantilismo che in Houellebecq…
L: Ma non è infantilismo, secondo me…
W: Beh, è una cosa molto tipica dell’infanzia questa cosa del volere tutto, no?
L: Sì, però il fatto che questo desiderio sgorghi pulito, proprio… riesce a conservarsi pulito. Houellebecq sembra aver perso qualcosa, cioè dover declinare ogni cosa sempre facendo finta che l’entusiasmo non sia una forza operante.
W: Una differenza grossa è che Houellebecq il successo l’ha conosciuto davvero. Lui è diventato davvero uno dei massimi scrittori mondiali, insomma. Quindi, penso che poi da quel punto lì, cioè quando tu non ti puoi nascondere più perché tutti sanno chi sei, sia più difficile mantenere questa specie di fame.
L: No, io credo che ci sia una simulazione, si finge di non essere mai entusiasti, si finge che l’entusiasmo non esista.
W: Però, boh, non lo so…
L: E’ consolatorio non doversi giocare nell’entusiasmo perché esser scoperti nei propri entusiasmi è pericoloso…
W: Questo sì. Però, guarda che… non so… lo vedo adesso perché il romanzo prossimo sarà soprattutto sui soldi, sul denaro. E allora mi sto introducendo usando un po’ di amici -persone che possono farlo- dentro le strutture finanziarie delle banche e queste cose qui. Per vedere cosa succede in queste sale di contrattazione, cosa succede in questi posti… E parlo con dei traders con dei sales traders eccetera… Il fatto che loro non sappiano che sono uno scrittore, perché appunto non mi conoscono, perché il nome Walter Siti non dice quasi niente, se non ai pochi addetti ai lavori, a me giova molto. Il fatto di sentirmi ancora una specie di topolino che si può introdurre non visto o non considerato nei posti e fotografarli e quindi poi raccontarli… è appunto veramente qualcosa di infantile che ha a che fare col voyeurismo. È come il bambino che si può infilare dove i grandi stanno nudi e li può guardare. Per cui mi dà ancora questa specie di gioia proprio del voyeurismo puro. Mentre penso che se dovessi fare come doveva fare per esempio Pasolini alla fine della sua vita o come deve fare Houellebecq… cioè tutte le volte che tu vai in un posto scontare il fatto che gente sa che tu sei Pasolini… Probabilmente questo piacere dell’incognito ti viene tolto. Penso per esempio al cambiamento che in Pasolini c’è passando da “Ragazzi di vita” a “Petrolio”: quando lui andava dai ragazzi con la Giulietta e i ragazzi non sapevano chi era o lo sapevano appena, lui poteva davvero giocare a calcio con loro, eccetera. Ed essere quasi uno di loro. Quando ci arriva da ricco, da regista… è chiaro che non è più lo stesso rapporto. E allora, secondo me, viene più facile pensare che siano loro che sono cambiati e che non hanno più la vivacità di un tempo e che non hanno più inventiva linguistica…
L: Quindi diventano uno schermo su cui proietta qualcosa di suo?
W: Beh, diciamo che c’è comunque un impaccio nel contatto. C’è qualche cosa che ti rende opaco il contatto. Come quando ti devono fare le presentazioni ufficiali. A quel punto, il rapporto non è più… perché quella cosa che tu dicevi, non so se traduco bene… una specie di gioia, di voglia della vita, che comunque c’è dietro questo personaggio (nda: il Walter Siti di “Scuola di nudo”) -che fa finta d’essere sempre desabusè- penso che nasca molto dalla possibilità di spiare i grandi ed è una cosa che anche Pasolini aveva moltissimo. Mi ricordo che una volta parlando del suo cinema dice: “per me gli altri sono come una raccolta infinita di padri e di madri. E vederli fare sesso con la mia camera, coglierli mentre fanno sesso con la mia macchina da presa, mi dà questo senso – appunto- di potermi impadronire del sesso dei genitori, eccetera”. Lui lo traduceva in termini freudiani, ma sostanzialmente è proprio la curiosità infantile voyeuristica. Quando perde quella cosa lì, vede dei cadaveri davanti a sé. Non vede più i genitori che fanno l’amore, ma vede i poveri corpi dei ragazzi come in “Salò”. Quindi, effettivamente, se perdi il tuo incognito perdi anche la possibilità di spiare i grandi.
L: Bisogna conservarsi incogniti anche a se stessi per vedere davvero, per allargare gli occhi fino a contenere il mondo?
W: Questo non lo so, è una domanda troppo difficile. Non ho idea. Un po’ forse sì. Un po’ forse sì, perché se tu sapessi tutto non ci sarebbe più nemmeno il divertimento del gioco.
L: E fingere di saper già tutto e di essere già stanchi di tutto non è una forma enorme di consolazione?
W: Beh, più che altro è un cliché letterario.
L: E’ un cliché… anche in Houellebecq è un cliché?
W: Certe volte adesso comincia ad essere un cliché, sì.
L: Un’altra domanda forse capitale. Prima parlavamo di realtà e iperrealismo. Il mondo è mai stato leggibile o è leggibile adesso?
W: Che cosa?
L: Il mondo, la realtà, è davvero leggibile? Come?
W: No, io penso che la realtà sia un’invenzione. Come dire? Dipende dagli organi di senso che ogni razza animale ha. Le api vedono dei colori che noi non vediamo, i cani sentono dei rumori che noi non sentiamo, eccetera. Quindi ogni specie animale evidentemente ha degli organi di senso che gli danno una certa immagine e probabilmente quella chiamano realtà. Dopodiché siccome poi noi siamo una specie animale speciale ci abbiamo costruito sopra un’enorme quantità di cose. Però uno conosce in genere quello che ci ha messo lui stesso, no? Per cui è un po’ assurda questa domanda, ma lì si va sul filosofico, quindi…
L: No, perché a me sembra che la “Trilogia” in particolare viva di continui rifiuti…di una serie successiva di rifiuti di accettare gli schemi di interpretazione della realtà…
W: Ah, su questo non c’è dubbio, sì. A me interessa quello che succede tutte le volte che c’è qualche cosa che rompe uno schema di interpretazione, questo è sicuro. Non so perché ma son sempre stato attratto da tutto quello che rompe gli stereotipi. Che poi può diventare esso stesso, naturalmente, uno stereotipo. Però è la cosa che mi attrae più di tutte. Adesso, per esempio, in questo racconto sul lavoro. Evidentemente una rivista che adesso in Italia esordisce con un numero sul lavoro vuol dire: “mi impegno in questa realtà dove i ragazzi hanno il più alto tasso di disoccupazione d’Europa, il lavoro manca, questo cambia… eccetera”. Quindi ho letto questa cosa perbenista tra le righe di questa richiesta che mi avevano fatto e l’unica cosa che sapevo che non avrei fatto mai era appunto una cosa sul lavoro di quel tipo lì. Cioè, raccontare quanto si sta male senza lavoro, cose di questo genere. Gli avevo anche detto di no, poi alla fine gli ho detto di sì perché avevo incontrato una persona che mi aveva cominciato a far scattare delle idee…ed è in realtà un racconto che penso che se lo leggono quelli della CGIL mi fanno un culo così, ecco. Per cui in realtà solo a contropelo riesco a fare le cose.
L: Però invece “Autopsia dell’ossessione” già dal titolo denuncia una forma di resa. Cioè, i due personaggi su cui si gioca la scissione di un io sono, secondo me, palesemente e continuamente denunciati come semplificazioni accettate, pur di poter parlare.
W: Sì, sì, non c’è dubbio.
L: Il semplice fatto di accettare questa semplificazione non è già tragico di per sé?
W: Sai, in quel libro la cosa che io ci leggo di più tragico, in realtà, è la fine dell’accecamento. Cioè il corpo che nel momento della sua radianza rendeva ciechi, felicemente ciechi, per cui era come se tutto avesse senso quando si toccava quel livello lì, adesso, essendosi appunto spento e quindi potendosi fare di questa cosa solo un’autopsia e non un’anatomia è come se avesse abolito la cecità e quindi Danilo “vede” quello che fa, vede quello che è la sua vita, vede che per esempio il sadomasochismo può diventare un gioco di società stupido in cui lui non si ritrova perché una volta che è accettato dai partners non c’è più violenza, non c’è più niente. Così come il Rivale alla fine vede che anche per lui questa finzione di trasportare il desiderio, farlo diventare amore ecc… segue le regole e il decorso che hanno tutti gli amori. Cioè a un certo punto sta finendo, dice: “Che palle! È solo Angelo…”. e quindi è come se la cosa più drammatica e più tragica del libro fosse proprio la fine dell’inconsapevolezza.
L: Dell’inconsapevolezza, dell’accecamento…
W: Sì. E quindi in realtà la fine della bellezza. Perché bellezza e accecamento vanno insieme.
L: Ed è una cosa che succede ben percepibile fuori dal libro, anche. Nel mondo. A me ha dato questa impressione vedere la sfilata dei corpi in televisione, adesso… la cronaca che chiamiamo ancora, per convenzione, ‘politica’.
W: Corpi in che senso?
L: I corpi delle ragazze.
W: Cioè le Olgettine? (ride) Che poi in realtà si vedono poco. Ne parlano molto ma si vedono poco. Perché non è che se ne son visti tanti poi di questi corpi. Son tutte imbacuccate quando passano…
L: Ci danno, rispetto ai corpi, la possibilità della sola autopsia. Non la possibilità dell’anatomia. Non sembra di vivere a volte in una società che si è rassegnata ad aver perso l’accecamento, aver perso già la bellezza che acceca?
W: È quello che penso, sì. È per quello che continuavo a dire a Mondadori, che non se ne faceva una ragione, che questa “Autopsia” a me sembrava un libro politico quanto e forse più degli altri. Loro continuavano a dire: “sei tornato al privato, non parli più della società”. A me non pare che sia così. No, penso che effettivamente sia una società dove da una parte si perdono i nomi, i nomi delle cose. Appunto “desiderio”, “amore” vengono un po’ usati in modi talmente strani che è come se non si capisse più bene cosa significano nel vocabolario. Ma poi anche il fatto che, come dire, non si desiderano più dei corpi che ti mettono in discussione. Ma si desiderano dei corpi che sono delle repliche di altri corpi, in qualche modo. Sono una specie di stanche ripetizioni di uno stereotipo. Quindi a quel punto è un po’ difficile avere ancora dei gesti vitali nei confronti di quei corpi. Ti vengono in mente dei gesti mortuari più che vitali.
L: E perché è così diffusa l’ansia di accedere a questo tipo di morte? Perché tutti quanti, moltissime persone, lasciano intendere quel “magari potessi farlo io!, quant’è fortunato!”? Da dove nasce questo bisogno di identificazione con l’aggressore, che veramente ci si sta mostrando morto eppure contemporaneamente si mostra come l’unico che è in grado di eseguire il proprio carattere, di rendere il proprio carattere effettivo, agente nel mondo? Perché ci sembra tanto vivo Berlusconi quando si autodenuncia come morto, magari inconsapevolmente, ma in maniera palese. Perché l’unico agitato è il più morto di tutti?
W: Eh, beh, lì il discorso penso che si faccia abbastanza difficile, però siamo proprio nel centro della cosa. Da una parte io ho proprio la netta sensazione che ci sia stato uno scambio tra qualità e quantità. Cioè che la capacità di un corpo -di un corpo singolo, però, di un individuo- di diventare ossessionante e di alludere all’Assoluto, all’Eterno, è una cosa che se tu l’affronti completamente ti scardina la vita. A me l’esempio che viene sempre in mente, non so perché, è Pavese: “è lei la venuta dal mare”. Quella cosa lì, quel corpo lì! Non quello di un’altra attricetta americana ma quel corpo lì diventa un simbolo di Artemide… no di Artemide, di Afrodite. E il contatto con quell’…
L: (Rido) Anche questo su Artemide era un bellissimo lapsus…
W: (Ride) Sì, sì…e veramente ti scardina l’esistenza. E quel tipo di rapporto lì, secondo me, se vogliamo tradurlo nei termini della nostra Costituzione che dice che il Presidente del Consiglio “deve reggere la sua carica con onore e dignità”, mi pare che sia la frase… Se una lo vivesse così, secondo me lo può vivere in pieno onore e in piena dignità. Ma dovrebbe dirlo. Mentre invece il fatto di farlo diventare quella cosa lì, spicciolarla in un’attricetta o sennò un’altra o sennò un’altra o magari allora quattro insieme, o perché allora non venti? O allora venticinque, o allora trenta… diventa come una specie di vivere al di sopra delle proprie possibilità, non so come dire. È come se tu cercassi di scambiare l’Assoluto con una serie successiva di…è proprio quella che Hegel chiamava la cattiva infinità: non è che uno più uno più uno più uno…fa l’infinito! No! Non lo farà mai! È come se veramente uno avesse scambiato la qualità con la quantità. E allora la quantità, quella sì poi confligge con il tuo onore, la tua dignità. Perché allora coinvolgi un sacco di gente, devi fare tutto un’ambaràdan che non finisce mai, allora devi mentire, allora devi nasconderti. Mentire e nascondersi sì che sono cose poco dignitose e disonorevoli. In realtà è come se l’Italia in questo momento fosse preda di una specie di enorme illusione ottica. Stanno dicendo tutti, compresa la Sinistra, che Berlusconi è indegno perché va con le ragazze, mentre secondo me è indegno perché non dice a sufficienza che cosa sarebbe per lui quella cosa lì, perché forse non losa neanche lui. È come se lui non avesse la capacità intellettuale di sostenere i suoi desideri. O forse la posizione in cui sta non glielo consente. Però, di fatto, poi, questa ambivalenza è l’ambivalenza che si sconta, come dicevi tu, nella gente. Perché nella mente di ciascuno, anche delle persone più semplici, quella cosa lì ritorna come onnipotenza: cioè nonostante lui abbia fatto, secondo me, questa enorme degradazione dell’infinito portandolo appunto a cattiva infinità, quando poi la persona semplice o povera lo legge, lo legge di nuovo come onnipotenza: cioè “posso avere tutto quello che voglio”, “può avere tutte le donne che gli pare”, capito?…e allora come non identificarsi?
L: Può avere tutte le donne che mi pare!
W: Sì, sì… sì. Che mi immagino! Può avere tutte le donne che mi immagino.
L: Come se quelle fossero davvero tutte le donne!
W: Sì! Sì, sì. Praticamente ognuno di noi ricostruisce nel suo cervello l’interezza di quella cosa che invece Berlusconi poi nella vita di fatto ha separato. E quindi come tale certo che è invidiabile!
L: Ed è un meccanismo che si può rompere?
W: Beh, sì, probabilmente inevitabilmente si romperà.
L: L’immaginario può guarire?
W: Sì. Da una parte ho l’impressione si sia già rotto. Cioè, tutto il meccanismo grosso. Poi il consumismo cosa è stato? È stato un’illusione che il desiderio d’infinito si potesse tradurre in realtà.
L: In realtà misurabile, quantificabile, numerabile…
W: …“L’infinito te lo faccio comprare!” Il che evidentemente non è vero, non è possibile.
L: Nemmeno se uno ha otto miliardi di euro!
W: No! Io adesso sto facendo questo libro sulla finanza perché è questa la cosa che mi interessa. Cioè questa illusione che con i soldi si possa ricostruire l’infinito per via induttiva. Questo chiaramente è una cosa che prima o poi per forza si romperà. E penso che si romperà nel solito modo in cui si rompono le cose, ripartendo da più indietro. A un certo punto le persone che arrivano e che sono più povere realmente e che hanno ancora dei problemi diversi e che non hanno, come dire, l’ambizione di tradurre in realtà il desiderio di onnipotenza, ma hanno desideri più semplici, tipo mangiare due volte al giorno, cominciare a prepararsi la casa… scopriranno che noi abbiamo vissuto su una nuvola per molti anni. E ricominceranno daccapo probabilmente. Cioè, non penso che ci sia un modo per risanare dove è finito adesso l’Occidente, perché l’Occidente è finito in un posto che ha una sua realtà, secondo me, cioè che ha una sua giustificazione. Tutte le società quando arrivano al massimo del loro splendore -diciamo così- scoprono inevitabilmente che la realtà non vale la pena. E quindi cominciano a fare meno figli, eccetera… E dopo ci vuole qualcun altro che ricominci da un’altra parte e che cominci a pensare che il mondo vale la pena un’altra volta. Per cui è come se veramente il consumismo ci avesse messo di fronte un’altra volta a una strada senza uscita. Con grande lucidità, poi, in fondo. E ci è toccato in sorte di avere come capo per vent’anni una persona che da una parte c’ha effettivamente una grinta umana probabilmente del tipo che dicevamo prima, cioè è uno che è rimasto bambino fino a settant’anni e che ancora adesso tende la manina verso le tette come se fossero…
L: È che tutti la danno a lui, la manina! È questo che è assurdo. Farebbe tenerezza se non gliela desse nessuno, fa orrore perché tutti gliela danno.
W: Perché la coincidenza è, appunto, tra un personaggio che psicologicamente è di quel tipo lì ed è anche il padrone di tutto l’immaginario che si vende in questo momento in Italia. Perché è il padrone di tutte le televisioni, il padrone di molti giornali…è veramente il padrone di tutto il nostro immaginario e contemporaneamente è anche il capo politico. Questa commistione di queste cose qui effettivamente fa un enorme casino. Per cui, da una parte è come se il suo aver toccato l’Assoluto così da vicino lo renda il nostro capo naturale, è quello che è andato più avanti, in un certo senso è una specie di eroe, molti lo interpretano così. E dall’altra, però, è anche uno che probabilmente sarà costretto a cadere preda del fatto che non si regge un culto della personalità sul ridicolo. Quella cosa là, quando è a contatto con le cose creaturali, tipo la vecchiaia eccetera eccetera…il settantacinquenne che sbava sulla sedicenne in tutte le tradizioni è un personaggio comico e non tragico: è il vecchio di Plauto. È il vecchio di Molière. È il vecchio delle commedie cinesi. Quindi, a un certo punto, sarà proprio quell’aspetto che gli farà perdere la sua autorevolezza. Per forza a un certo punto succederà. In questo momento secondo me la cosa gioca ancora a suo favore, perché gli italiani son fatti in modo che a loro piace molto sentirsi superiori a chi li comanda. Per cui il fatto di sentire che questo che c’ha in mano tutto il mondo però anche queste lo fanno un po’ cornuto, lo sfruttano, parlano male di lui, dicono che c’ha le chiappe flaccide… fa sentire gli italiani migliori e quindi in un certo senso è come se poi in fondo non gli dispiacesse essere comandati da uno che loro sanno che loro per vari motivi si sentono più ganzi! (Ride). Però ci sarà poi un certo momento in cui questa cosa raggiungerà dei suoi limiti per cui il ridicolo lo spingerà a non presentarsi più alle elezioni, a mettere dei suoi fidi o cose del genere. Perché le cose a un certo punto vanno a collidere.
L: Ma a me sembra, paradossalmente, che il suo carattere è una delle poche cose ad essere degne di essere raccontate, nella politica di questi giorni…
W: Ah, non c’è dubbio.
L: E quindi credo che la sua storia raccontandosi di continuo e cambiandosi ogni giorno…secondo me ormai le sue bugie, raccontate di continuo, non sono più semplici menzogne. Sono un grande topos: la bugia di Berlusconi è veramente -come diceva Lukàcs- una struttura dinamica significativa.
W: Ah, sì, certo. Però il problema è che la politica è fatta di ipocrisia. Per forza. Perché l’ipocrisia appunto è un omaggio che il vizio rende alla virtù. E quindi, come diceva Luttwak, che è uno lucido da questo punto di vista -seppure luciferino, ma lucido!-, eh, diceva: “non parlate così male dell’ipocrisia, perché l’ipocrisia è quello che regge tutto in politica”.
L: In effetti Berlusconi è meno ipocrita di quanto ci si aspetterebbe. Anche per questo vince. Il modello culturale, non dico le elezioni.
W: Sì. Però la contraddizione a cui inevitabilmente sta andando incontro, secondo me, è che il tipo psicologico che dicevamo prima, cioè appunto l’eterno bambino che si crede onnipotente, che vuole avere tutto dalla vita e che ha le possibilità materiali per poterci almeno provare, sta diventando un tipo ridicolo. E quindi l’ipocrisia a un certo punto non lo salverà più. Quando, a un certo punto, anche in Italia si renderanno conto, i poteri “forti”, diciamo così…che quella persona lì fa solo ridere tutte le cancellerie del mondo, probabilmente al prossimo turno elettorale gli fanno garbatamente capire che se ci mette una figlia o un nipote o un parente forse è meglio. Piuttosto che lui…
L: Abbiamo bisogno di un’autodistruzione? Garbatamente, piano…ma soltanto lui può distruggersi?
W: Sì, sì. Questo penso di sì. E, beh, ha una tale posizione di forza che non credo possa essere scalfito da nient’altro. Quando un mese e mezzo fa sembrava che ce la si facesse… mia sorella, che è una di quelle donne combattenti, mi diceva: “dai che è sicuro, questa volta ce la facciamo”, io -facendo sempre la parte di quello negativo– dicevo: “guarda, no. No! Perché figurati nel prossimo mese quanti riesce a comprarsene…”. Lei diceva “no, no!”…mi sembra abbastanza evidente…Però abbiamo slittato dalla letteratura a questi temi…
L: Non importa, siamo liberi. Sei stanco?
W: Un po’.
L: Va bene. Finisco la sigaretta e ti lascio libero.
W: Ma tu cosa ci devi fare con questa intervista, spiegami?
L: È per “Il primo amore”. Te l’avevo detto! (Gli passo la rivista)
W: (Sfoglia il numero che ho portato con me, “Il Vitello d’oro”. In copertina l’opera di Damien Hirsh “For the love of God!”. Si tratta della riproduzione di un teschio ricoperta di pietre preziose…) Ah, dove c’è il teschio di… sono andato a quella mostra…
L: Il volume si chiama “Le opere di genio”. A me è venuto in mente Walter Siti, il tuo nome è un’opera di genio…
W: Anche loro girano intorno alla cosa dei soldi, l’oro, il denaro…sì, certo. Questo teschio m’ha fatto abbastanza impressione per la scenografia enorme che hanno combinato. Perché uno per andarlo a vedere deve entrare nel salone dei Cinquecento. Entra quindi in un luogo dove l’arte celebra i suoi assoluti fasti, eccetera…ci sono sculture di Michelangelo, architetture di Vasari…se ne deve fottere di tutto quello, deve imboccare una piccola scaletta che sul lato del Salone ti porta in un labirinto. A quel punto, completamente buio. Tutto foderato di stoffa nera….tu devi fare tre o quattro gomiti di questo labirinto, come se fosse appunto un pellegrinaggio, e poi ti ritrovi in una stanzetta un po’ più grande, anche quella tutta foderata di nero, con un signore che ti pianta una pila negli occhi e che dice ad alta voce: “è arrivato!”. Oppure “eccone uno!”, qualcosa del genere. Perché l’altro deve sapere che tu sei arrivato al posto, dopo di che abbassa la cosa e dice: “può guardare” e tu ti avvicini a questa teca di vetro dove c’è dentro questa roba che vale non so quanti miliardi, perché sono diamanti veri, è platino vero, tutto quanto. Costa due milioni, due milioni e cinquecentomila euro… una roba così. E quindi vetri antiproiettile, tutte queste cose qua… Ti lascia fare tre giri intorno alla teca e poi ti dice “è ora di andare!”. Quindi poi tu devi abbandonare e fare un’altra serie di labirinti neri e andare via e si sente la voce che dice “il Secondo!” (ride)
(Rido anch’io).
W: È veramente un’adorazione…
L: Una liturgia!
W: È una liturgia. L’adorazione della ricchezza, sì.
L: Bene… grazie, veramente.
W: Niente. Non so cosa salterà fuori…
L: Prima di pubblicarla dobbiamo risentirci?
W: Tu ce l’hai la mia mail?
L: Sì.
W: Va bene.
L: Ho visto che Facebook ti fa un po’ paura…
W: Non ci lavoro… mi ci hanno messo contro il mio volere, poi non mi tolgo… in realtà non saprei neanche come fare a togliermi… ma non mi tolgo perché la sera prima di andare a letto guardo la bacheca… ho adottato questa tecnica strana che dico di sì solo a quelli che conosco già. Che credo sia il contrario di quello che dovrebbe fare un social network, cioè conoscere persone nuove. Io invece dico a tutti di no, a quelli che mi chiedono l’amicizia che non so chi sono (ride)…quindi in realtà ne ho pochi, di amici. Tipo ex compagni di scuola o persone che ho conosciuto… però son già abbastanza per fare una serie di cazzate che almeno un quarto d’ora la sera te lo puoi passare vedendo tutte le fotografie che hanno messo, i video, le cose… Poi, siccome dico di sì a persone intelligenti, magari ci mettono anche delle cose divertenti, dei video che io non ho visto, dei pezzi di Youtube che non sarei andato a vedere. Però non ci ho mai, come si dice… postato… niente di mio. L’idea che la gente possa leggere qualcosa…. mi fa impressione perché poi non so neanche chi… è buffo perché lo so che i libri poi vanno in mano a chiunque, però… quello che dicevo prima: i libri hanno una corazza, invece una cazzata che sparo la sera non ce l’ha. Per cui, quelle poche volte che ho bisogno di dire qualcosa a uno su facebook, mando un messaggio privato. Non riesco a mettere niente su una cosa pubblica.
L: Sono arrivato a te per degli studi che sto facendo. Partendo da Antonio Moresco, per delle soluzioni differenti che date a certi problemi. Ho trovato una serie di analogie e costanti, ma in realtà i due modi progredire in narrazione sono quasi opposti.
W: Sono proprio diversi, sì.
L: “Io mi chiamo Walter Siti, come tutti.” (è l’inizio di “Troppi paradisi”, nda). “Delegittimo ancora questa affermazione autodenunciando il plagio…” contro: “Io mi chiamo Antonio Moresco, a questo punto, qui dentro” (Canti del caos, p. 937, nda). Un’affermazione sta all’inizio del libro, un’altra serve per poterlo non finire…
W: Io ho letto le sue cose, però poi non avevamo mai avuto contatto. Ci siamo incontrati una volta a Roma, per una presentazione di cose sue, organizzate, credo, da Carla Benedetti. Siamo poi andati a cena. E lì ci siamo piaciuti. A me come persona lui piace molto. Mi piace molto questa sua aria un po’ timida, un po’ introversa.
L: È accecato! A proposito di quello che dicevamo prima sulla bellezza. È una speranza vivente di accecamento anche per noi!
W: Poi c’ha un physique du ròle straordinario. Veramente come persona mi ha fatto molta simpatia.
L: Eh, vinto l’imbarazzo. Mi interpreti la dedica? (All’inizio dell’intervista mi ero fatto autografare “Scuola di nudo”, dicendo che mi serviva chiedergli l’autografo come procedura di “mitizzazione”. Poi gli avevo regalato un accendino con in effigie un pinguino culturista, dicendo che mi serviva prenderlo un po’ in giro come procedura di “demitizzazione”…)
W: “A Luca in attesa che si scarichi la tensione”.
L: Ah. Beh, ha funzionato.
W: Tu devi essere un timido cronico.
L: Non lo so…
W: Beh, l’impressione che fai è quella. (ride).
L: Certo che la faccio! Sono quindici giorni ti leggo e parlo avendo in testa la tua voce! (Spengo il registratore).
[intervista pubblicata sul “Primo amore” on-line]
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