di Elena Frontaloni
Colloqui con mio fratello, del 1924, è il primo libro in cui Giani Stuparich ripensa sia la sua esperienza di volontario fatto prigioniero durante la Prima Guerra Mondiale, sia la morte del fratello Carlo, anch’egli partito volontario, poi suicidatosi per non cadere in mano al nemico. Il volume però non è un diario di guerra o di prigionia, né una semplice testimonianza o meditazione su fatti sopra ricordati. Come dice il titolo, siamo invece davanti a nove «colloqui», parole scambiate tra due fratelli, un vivo e uno morto, in momenti di particolare sconforto del sopravvissuto, il quale invoca o punge col proprio dolore, richiamandolo a sé, chi per parte sua non c’è più, non può offrire «rimedi» o «rifugi» ma promette di farsi «riparo» [2] ai suoi tormenti, solo in profondità sempre legati ai fatti della guerra. I temi affrontati sono per così dire maiuscoli, senza tempo (la morte, la vita, il ricordo, la tristezza, la responsabilità, l’amore) e sono ripensati all’incrocio tra l’umanità del fratello vivo, calata in un presente sempre diverso (la prigionia, il ritorno a casa, la nascita della figlia, lo scontro con la nuova «giovinezza» ubriaca di parole, come “patria”, misinterpretate [3]), e quella del fratello morto, costruita tra passato ed eterno, a illustrare un compimento morale e una pace dello sguardo che per il vivente è solo (e non potrebbe essere altrimenti) precaria tensione ideale, o, nella migliore delle ipotesi, sofferta conquista giornaliera. Il passato e il presente, lo stato di chi è ancora gettato nel mondo e di chi non lo è più, nei Colloqui, sono due lenti messe sopra un discorso che si vuole riconducibile alla biografia dell’autore ma anche universale, sottratto per questa doppia via alle derive dello sfogo intimo e alle sevizie ideologiche che insidiano il quotidiano, appartato “stare coi morti” di Stuparich negli anni Venti.
Il tono del volume, la fermezza alta dello stile, traducono alla stessa maniera l’atteggiamento dell’autore durante il Ventennio: solitudine, presa di distanza dal rumore della cronaca e della politica, riflessione sui grandi temi e cura antiretorica del passato come forme di resistenza morale. Ma il calmo vigore stilistico dello Stuparich dei Colloqui è anche una «ringhiera» sull’abisso del male, dello sconforto, infine dell’ineliminabile violenza che il gesto di invocazione nei confronti del passato e dei morti esercita sul passato stesso e sui morti medesimi. Voglio dire che i Colloqui sono tessuti e quasi parlano ossessivamente di un terribile sapere: la violenza che il presente compie sul passato, la vita sulla morte, le parole sul silenzio, anche quando il primo termine e il secondo termine della serie trovano raccordo in un sentimento d’affetto specifico, o in un interesse morale verso l’umanità dell’uomo. Denunciando il grumo di violenza contenuto nell’appello più intimo, morale e spassionato al tempo, alle parole e alle figure di ieri, Stuparich getta, contemporaneamente, luce tanto più amara sull’uso del passato, del corpo fermo e delle oramai ferme azioni dei morti che si va facendo nell’attualità dentro cui, volta volta, dialogo dopo dialogo, si trova a vivere e a incontrare la voce del fratello. A correzione di ciò, propone un meditato ascolto della voce del morto, del passato: irrimediabilmente feriti dal presente, ma che al presente possono consegnare una scheggia di verità nell’indicazione degli enormi limiti del ragionamento e della parola, che tuttavia non si debbono né possono smettere di utilizzare. Le spie testuali di una simile soluzione e di una simile accusa, rivolta contro l’epoca in corso tramite lo smascheramento della violenza insita nel volgersi indietro del fratello vivo, sono molte, distribuite lungo tutto il volumetto. Già dal primo colloquio, difatti, l’apparizione del fratello morto, che scende al fianco del vivo perché invocato, è pervasa dalla fatica a far «rinascere la voce» e a reimmetersi nei discorsi umani, fatti di «contorte ragioni» e di temporalità. Pure la percezione del morto da parte del vivo è un atto di rapinoso amore storpiato dall’immaginazione:
Se ancora nulla tu sai né puoi, fin che non lasci la terra, sapere del nostro sublime mistero, pure io non t’abbandono. E questa è la prova. Non so come io scendo al tuo fianco, che invero è troppo la nostra essenza sottile per le vostre ottuse pupille, ma su di te quasi librandomi, lascio che il tuo desiderio l’immagine afferri che può, e in questa mi specchio. Così dentro alle forme in cui sei capace di cogliermi, ti parlo: e siamo ancora fratelli. [4]
«Fratelli», risponde a questo punto il soggetto vivo, con un meccanismo di eco che sarà frequente nel volume [5], e particolarmente nei punti d’intesa più alta, i punti in cui il vivo riconosce la sua posizione: continuare a gestire la propria miseria premendo il doppio pedale della condanna all’essere nel mondo e della necessità di sottrarvisi per continuare a “esserci” in maniera approssimativamente responsabile nei confronti del passato e del futuro. Ma il meccanismo della eco si carica di un valore terribile se letto in controluce a un passo del colloquio Dell’oggi e degli uomini. Il dialogo, conficcato al centro del libro [6], presenta un intervento del fratello morto non motivato da un diretto richiamo del vivo («Sono venuto quest’oggi senza che tu mi chiamassi. Nel mio essere uguale ch’è tutto una calma nobile distesa, una vibrazione ho avvertito in un punto, piccola ma intensa. In quel punto mi sono raccolto: era vero ciò che temevo: tu soffri» [7]). Qui si vede bene come l’oggi e gli uomini vivi, rumorosi o solitari, rappresentino una puntura infernale, un abisso rovinoso per ciò che è stato nel tempo, ne è uscito, e che dal tempo viene ricatturato con violenza più o meno ottusa. Altrettanto bene si riconosce il dramma del linguaggio che si sta consumando tra le pagine del libro, nella severa altezza del dettato di Stuparich. Al fratello vivo che lamenta l’esser «preso nelle spire di questo oggi crudele» e insieme d’essere uomo, appartenente alla stirpe di chi può camminare, ad esempio, «ridente nella notte» [8] dopo aver ucciso, o compiuto una immane vigliaccheria, il fratello morto risponde:
Grave è la tua pena, né io posso alleviartela con le mie parole. I nostri linguaggi non s’incontrano più. D’ogni materia è sciolto il mio linguaggio abituale d’ora e sfugge ai sensi che nei segni palpano il significato. Nei segni voi afferrate le ragioni: ecco perché sono fragili queste, e mutevoli, e mai non ne siete sicuri. Ma s’io cerco con le parole vostre di costruire un linguaggio in cui un’ombra ci sia della mia verità, nel momento stesso divento imperfetto, perché tu mi capisca. Solo l’amore di te mi persuade di tanto in tanto a rinunciare alla mia sicurezza infinita, per diventare ancora un uomo malcerto che parla con un altro uomo. Così capisco il tuo cruccio e sento come il tempo in cui vivi quasi un altro, più grande, sensibile corpo ti sia e ti faccia gioire e patire tutti i suoi moti. Vano è per voi viventi tentar di sfuggire all’oggi che vi preme.
Sottratto alla sua «liquida calma», il fratello pronuncia così un laico referto sul vivere e sul parlare umano; segnala inoltre che il proposito di un «colloquio» che porti, come etimolgicamente dovrebbe, ad un accordo sui grandi temi, si rivela fallimentare, perché il significato su cui puntano le parole del vivo non è lo stesso su cui puntano quelle del morto, il quale approssima, così come in vita, il succo dei suoi discorsi; lasciandoli a loro volta approssimare, così come in vita, dalla comprensione e dal desiderio rapinoso di pace e di «possesso» del vivo. I due colloqui precedenti a quello centrale poco fa citato, Dell’oggi e degli uomini, sono sotto questo aspetto istruttivi. Della tristezza e della casa, in particolare, parla della cattiva comunicazione tra vivi; Dei ricordi e della morte parla della superbia dei vivi nell’interpretare i fatti e la posizione di ciò che è uscito e dal tempo e dal presente mutevole, lasciando tuttavia nel presente una sua traccia. Nel primo colloquio, il fratello vivo ricorda il rientro a casa, a Trieste, dopo la prigionia, «solo» e «per le vie più nascoste»; annota lo svolgersi apparentemente immutato della vita familiare, osserva la sorella Bianca che suona il piano, e si lascia prendere da smanie di vagabondaggio. L’avvio del ragionamento è dato dal largo mesto dell’opera dieci di Beethoven: un pezzo che il vivo sentiva eseguire dalla sorella appunto col fratello morto, e all’ascolto del quale il volto del morto gli torna in mente con «un’amara bocca», piena di tristezza. Il pensiero, ch’è pure ricordo, del vivo, si rivela però subito errato, frutto di una proiezione: «Sempre ha fatto sì questo adagio ch’io stimassi gli uomini più degni di vivere, ogni qual volta l’ho udito», precisa infatti il fratello morto. E continua «La mia tristezza ti fa ricordare? Eppure è sempre sceso, irrorante, sulla mia arsura terrena. Ma tu non pensi soltanto alla mia, che dal poco esser con gli uomini mi veniva, ma alla nostra tristezza, della casa. E questa forse ti pesa perché non intendi ancora che dov’essa sia un accordo di cuori, è un privilegio» [9]. A tema, come si vede, è il legame tra tristezza e unione familiare, lungamente svolto nel seguito del dialogo; e la dispercezione del vivo si rivela al proposito doppia: non ha inteso l’atteggiamento del fratello in passato e non può intendere una volta per tutte, ma dovrà conquistare giornalmente, ciò che ora il morto gli va a insegnare: la tristezza come percezione del limite, modo dell’abitare e della comunione, estrema salute umana, recinto che ripara dal voler nulla o troppo sapere e «riempie miracolosamente la vita di significato» [10]. L’altro colloquio a cui facevo riferimento, immediatamente successivo a questo, s’intitola Dei ricordi e della morte: vi si inchioda la mutevolezza del ricordo umano, preda di facili distorsioni, e l’ansia di possesso che condanna il vivere: «Noi siamo franchi dei vostri terrori», afferma il morto davanti allo strazio del vivo che vorrebbe abbracciarlo mentre ricorda l’immagine della morte incontrata in guerra: «Noi più nulla possiamo perdere. Fin che si vive tutto si può perdere, ma niente è ancora perduto: si va e si coglie, si lascia e si riprende, si alternano albe e tramonti, ma tali che danno sempre promesse di nuove aurore. Ma quando si muore…». Su questa pausa si inserisce il fratello vivo: «Ma allora tu soffri,» dice «non hai dimenticato la bella vita per sempre perduta!» [11], e insinua così un desiderio di temporalità nella posizione del fratello, immediatamente smentito, e con durezza:
Se come il cielo che ti sta sul capo, potessi sospender sui tuoi occhi la mia serenità, tu non avresti perduto la calma del tuo ragionare. Debole è il vostro cuore e troppo giovane ancora, sì che trabocca al più piccolo urto. Bisognerebbe esser duri con voi. Ecco; perché io compiangevo il tuo orrore e stavo scendendo a te, fra i tuoi sensi, per renderti meno violenta la luce, tu m’afferrasti e m’hai travolto in una rovina di nostalgie: non me, la mia ombra terrena. E l’hai tutta illuminata di riflessi, per rendere più compassionevole il velo con cui l’avresti coperta, insieme con te, di tristezza. [12]
Nel seguito del colloquio sapremo che altri sono i fatti di guerra e di comunione col caduto che il fratello vivo dovrebbe ricordare, e che se mai del tutto esaurita e compresa sarà la definizione del personaggio del fratello morto, in quanto entità sottratta al tempo e in quanto figura del passato, altrettanto lo sarà quella della propria “immagine migliore” da parte del vivo. Da questa impasse, da questo dramma, da questa scissione, i Colloqui non escono. L’unità difatti, il retto giudizio, si dirà nell’ultimo colloqui, sono solo in Dio [13]: che però non è qualcosa di trascendente a cui si demanda l’ultima risposta, né tantomeno un “deus ex machina” narrativo, ma la forma di un desiderio umano d’unità mai appagato, e che tale per forza rimane. «L’uomo ben poco può sollevarsi dall’uomo», affermerà piuttosto il fratello vivo, tirando le somme e dei colloqui col fratello morto e dell’esperienza bellica, su cui alla fine si ritorna a ragionare [14]. E da qui, da questa amara consapevolezza, anche Giani Stuparich sarà pronto a votarsi al «ricordo preciso di superate prove» [15], alla pubblicazione di Guerra del ’15, e ancora alla memoria del fratello e degli amici coltivata con pacata decisione per tutta la vita. Con la vergogna di chi sa di tradire e interpretare ogni volta che parla e trascrive. Ma pure con l’orgoglio di chi, percepito il proprio limite e il proprio compito, sa di aver acciuffato un «nodo», un momento insieme di storia umana e di umanità sovrastorica, e sa di non potere, e di non volere, «lasciar cadere le mani» [16].
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Note
[1] Per i dati biografici ho fatto riferimento a Renato Bertacchini, Giani Stuparich, Firenze, La Nuova Italia, 1974. Ho letto Colloqui con mio fratello nell’ultima edizione disponibile del testo: Giani Stuparich, Colloqui con mio fratello, a cura di Cesare De Michelis, Venezia, Marsilio 1985: d’ora in avanti Colloqui.
[2] Colloqui, pp. 20-21.
[3] Cfr. Colloqui, pp. 61-73.
[4] Colloqui, p. 14.
[5] Si veda al proposito, per esempio, a p. 44 dei Colloqui, l’inciso: «Proteggi quelli che lasciamo».
[6] Colloqui, pp. 47-59.
[7] Colloqui, p. 49.
[8] Colloqui, pp. 50-51.
[9] Colloqui, p. 26.
[10] Colloqui, p. 29.
[11] Colloqui, p. 40.
[12] Ibidem.
[13] Colloqui, p. 119.
[14] Colloqui, pp. 118-120.
[15] Colloqui, p. 70.
[16] Colloqui, p. 121.