Alessandro Broggi

La prima cosa che mi sono chiesto, leggendo i testi di Michele Zaffarano è: di cosa scrive l’autore? Vuole davvero parlarci di alberi, fiori, libri, case, della primavera?

Queste poesie le dobbiamo leggere letteralmente? O la loro non è piuttosto una strategia retorica obliqua, indiretta? Forse ironica?

Certo, a prima vista questi testi non rappresentano allegorie (almeno non in senso tradizionale) o simboli di qualcos’altro, come invece per esempio molte poesie di Giampiero Neri, autore che si serve ugualmente di materiali di tipo saggistico – nel suo caso attingendo dall’etologia e dalla botanica – con rimandi però diretti e immediati al mondo dell’uomo (e rimanendo in ambito ancora lirico, per quanto in modo rarefatto, ma sempre con una forte istanza veritativa del soggetto, presente nel testo come osservatore se non come narratore implicitamente autobiografico).

No, il lavoro di Zaffarano, che ci spiega cose note utilizzando discorsi già circolanti prelevati dal web, e da lui ulteriormente asciugati, mi ha piuttosto fatto venire in mente autori come il Georges Perec dell’infraordinario, per cui il dato dell’esperienza e dell’osservazione quotidiana sarebbe così abituale ed evidente da aver cessato di essere rilevato.

Ma è, questo di Zaffarano, forse, un infraordinario di tipo linguistico più che “esperienziale”; e l’infraordinario nella lingua ha forse come sue colonne d’Ercole proprio il lapalissiano e la tautologia di questi testi. Probabilmente, siamo vicini a una impostazione di fondo di tipo concettuale, in senso piuttosto ortodosso, vicina a un Kosuth per capirci.

Il poeta, quindi, attraverso il sobrio, nominalistico dettato descrittivo di questi versi, definitori del già noto, del “supernormale” diremmo, proprio chiedendoci di rimanere sul piano letterale sta, credo, dicendoci qualcosa che concettualmente va al di là della propria lettera.

Se però dunque non siamo tipicamente nel campo dell’allegoria – a meno di non applicare a tutti i testi il senso politico papale della prima poesia della raccolta, che interpola Gramsci, cercando programmaticamente in essi riscontri e rimandi rispetto a quella prima pietra di paragone –; e né siamo nel campo dell’ironia, che mi pare qui un effetto ben conseguito ma in fondo secondario, di cosa si tratterebbe più esattamente?

Forse le risposte che cerchiamo le possiamo trovare guardando a un’altra caratteristica di questo lavoro: quella di una doppia negazione – come sappiamo dalla matematica, “meno per meno dà più” –, rispetto alla densità stilistica e alla figuralità retorica del testo da una parte, che sarebbero tendenti a zero, e rispetto alla posizione del soggetto autoriale dall’altra, che è qui nascosto, o meglio non richiesto, fondativamente non necessario.

Riguardo al primo di questi due aspetti, quello concernente i materiali linguistici usati, mi è venuta in mente un’affermazione dell’artista minimalista Robert Irwin, che potrebbe chiarire ulteriormente i termini della questione: “La cosa da capire è che la riduzione di mezzi è una riduzione di immaginazione allo scopo di arrivare a una fisicità, una riduzione di metafore per arrivare ad una presenza”.

Il secondo aspetto mi ha invece fatto pensare a John Cage, che confessava di non amare la tradizione della musica classica occidentale perché non gli permetteva di sentire il suono, e i suoni, ma soltanto il discorso musicale, assertivo e auto-centrato di ciascun compositore. Da cui l’invito, fatto a un intervistatore ma presente in tutta la sua musica, a soffermarsi ad esempio sull’infinita varietà e banalità dei rumori del traffico, piuttosto che ascoltare le opere di Bach, Mozart o Beethoven, dalla quale si sarebbe potuto desumere solo il pensiero dei loro autori, come persone che continuando a parlare non ti permettono di ascoltare il mondo, o come “belle cartoline che rovinano la visione del paesaggio”.

Il ricordo di Cage non mi sembra ci allontani dalla poetica dell’autore che presentiamo questa sera, il quale, molto laicamente, rinuncia – rimonto qui due brevi spezzoni dal saggio “Tre paragrafi” di Bortolotti/Giovenale – ad “attribuire alla propria esistenza storica la forza carismatica di coordinare le forze centrifughe che disfano qualunque discorso sul mondo”, e si propone di rimettere il discorso stesso nel mondo “anziché nel proprio limbo ideologico-metafisico”; modalità, quella, che è invece tipica dell’io lirico tradizionale e della sua presunta interiorità occulta, posta in modo onnisciente rispetto al proprio testo, testo che finisce in quel caso per risultare l’irrazionale e opaco referto veritativo attraverso il quale ricercare il mero rispecchiamento del lettore.

Se dunque al lettore di questo libro non è dato rispecchiarsi nell’io lirico dell’autore, e condividerne passivamente le verità e la “prospettiva di mondo”, né giovarsi della complessità, della ricchezza retorico-stilistica e della presunta verticalità del testo poetico (parametri qui azzerati), non gli resterà attraverso il testo che rivolgere la propria attenzione verso se stesso e verso la propria importanza “politica” di lettore.

Riprendo in mano Wunderkammer, la raccolta di Michele Zaffarano inclusa nel libro collettivo Prosa in prosa, e ritrovo nel suo sottotitolo una conferma di questa tesi. Il titolo completo, così recita: Wunderkammer, ovvero Come ho imparato a leggere.

Come John Cage, con la sua musica liberata dall’ego mirava a un’etica e a una politica dell’ascolto, così dunque le “poesie liberate” di Cinque testi tra cui gli alberi (più uno), nella loro inaggirabile, paradossale letteralità mirerebbero a un’etica e a una politica della lettura. E in questo senso sarebbero, autenticamente, poesie civili, come recita il sottotitolo del libro.

Aggiungo un corollario: perché politica della lettura? Non credo di forzare troppo le intenzioni di Zaffarano affermando che educare alla lettura con una sequenza di poesie fondate sul più candido e disarmato meccanismo della definizione, significa forse anche educare alla definizione come nominazione e razionale messa a distanza e a nudo del mondo, e contemporaneamente educare alla consapevolezza di fronte ai tranelli e agli automatismi retorici con cui la società della comunicazione e del consumo – servendosi spesso subdolamente proprio degli strumenti della lingua figurata della poesia lirica tradizionale – “definisce” appunto, e sancisce quotidianamente le nostre pratiche, abitudini e desideri.

E allora chiudo questa mia impressionistica lettura della raccolta di Michele con un’altra citazione, da Perec questa volta: “Bisogna che un giorno o l’altro mi serva delle parole per smascherare il reale, per smascherare la mia realtà. È più o meno così che oggi posso definire il mio progetto. Ma so che non potrà realizzarsi completamente se non il giorno in cui avremo scacciato, una volta per tutte, il Poeta dalla città”.

Alessandro Broggi

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