Andrea Cortellessa
Dopo Paul Celan, ecco un altro personaggio che il signor Jourdain deve trattare coi guanti. Non per rispetto, però – bensì per paura. Si tratta di Antonin Artaud; e che facesse paura anche ai suoi contemporanei Jourdain lo ha scoperto nel vademecum dell’artaudiano perfetto, l’Album Antonin Artaud curato dal poeta veneto Pasquale Di Palmo per l’associazione Il Ponte del Sale (pp. 275 con 444 ill.ni in b.n., euro 36.00; lo si ordina a ilpontedelsale [at] libero.it).
Il 18 maggio 1937 Artaud tiene una conferenza alla Maison d’Art di Bruxelles; l’anno prima è tornato da un prolungato soggiorno in Messico, presso la tribù dei Tarahumara, che lo hanno fra l’altro iniziato al peyotl. Quella sera maledetta, c’è chi dice che riferisse del suo soggiorno messicano, oppure degli effetti della masturbazione sui gesuiti (?). Fatto sta che alza alquanto la voce e molti astanti si allontanano, appunto, in preda al panico. Fra loro i genitori della sua fidanzata, Cécile Schramme, i quali seduta stante decidono che quel matrimonio non s’ha da fare. Qualche settimana dopo, essendogli stato donato un bastone che gli hanno spacciato per quello di san Patrizio, Artaud parte alla volta di Dublino per restituire il prezioso cimelio al popolo irlandese. Lo rispediscono in Francia in camicia di forza. Da allora, passa da un ospedale psichiatrico all’altro. Nel ’43, a Rodez, viene sottoposto alla prima di cinquantuno sedute di elettroshock – che gli causano, fra l’altro, una frattura alle vertebre e la caduta di tutti i denti. Dal manicomio lo tirano fuori, nel ’46, gli illustri amici letterati. Di nuovo si spaventano: è irriconoscibile. Due anni dopo lo troveranno morto ai piedi del letto. Aveva 52 anni – ne dimostrava venti di più.
Era stato bellissimo, Artaud. Lo testimoniano con insolenza le tante foto di quest’Album, di autori più o meno celebri (famosi gli scatti di Man Ray e Georges Pastier – prima e dopo Rodez). Così come i maggiori cineasti del suo tempo, da Gance a Dreyer a L’Herbier, che lo chiamano a impersonare i loro film. La sua rivoluzionaria presenza a teatro, invece, ha poche testimonianze – se non le solite baruffe (in particolare coi surrealisti rimasti fedeli a Breton) e i lampeggianti testi teorici del Teatro e il suo doppio.
La vita di Artaud non poteva che essere raccontata per immagini. La scrittura per lui non era che un surrogato, l’ombra pallida di una presenza estrema, scandalosa, disturbante: un tutto-corpo sfigurato dal grido (impressiona il provino per un film di Gance poi fallito, La fin du monde, del ’30, dove di nuovo il volto di Artaud urlante risulta irriconoscibile; l’ultima sua “opera”, la più “maledetta”, sarà la registrazione per la radio delle urla blasfeme di Per farla finita col giudizio di dio). Lo ha ben capito Di Palmo, che pure da tanto tempo (con dedizione da fanatico che, con un simile personaggio, è l’unico atteggiamento possibile) cura e traduce suoi testi per una serie di piccoli e benemeriti editori (come Via del Vento, l’Obliquo e Stampa Alternativa). Situazione paradossale che Jourdain ben conosce, quella di dover tradire un autore per essergli fedele.
Che un simile monumento sia dovuto uscire per la prima volta in Italia, e per un non-editore no-profit, la dice lunga su quanto una figura come Artaud, a dispetto dei sorrisini di sufficienza dei tanti che hanno chiuso i conti col Novecento, resti una crux, un’aporia, un asintoto estremo e infinitamente problematico. Qualcosa cioè che – per fortuna – riesce ancora a farci paura.
Andrea Cortellessa
(2010)
[ gli altri articoli: http://puntocritico.eu/?tag=jourdain ]