Gianluca Garrapa: 

la classe importa, però      con il suo audio, sempre leso:

Querencia è il luogo dove il toro torna spesso, il luogo sicuro. Querencia è anche il chiedere e il desiderare. È il luogo dove il nostro animale può riposare, tacere, mi sembra che sia anche, nel verso, la cesura, il vuoto che fa e aspetta il desiderio. Pure è la sospensione inversa al comico, che non è tragica, ma gioca con la parola e l’ascolto che la riscrive: audio\leso. L’ascolto dunque. Levare l’abitudine del sentire per ascoltare davvero. Querencia, in quanto messa in scrittura del desiderio, è la parola piena del soggetto che non può confondersi con la parola vuota, vuotata, votata al potere.

Come nasce il desiderio di Querencia?

Lorenzo Mari: Credo che nasca, più che altro, da un desiderio di spazio: non uno spazio per la cosiddetta “espressione” dell’autore – della sua soggettività, in altre parole… o anche peggio… – ma uno spazio di rifugio, possibilmente abitabile anche per altri. È una ricerca che non trova conclusione – non può, forse costitutivamente, averne una – e quindi produce sempre risultati diversi. Mi piace molto, ad esempio, il tuo accenno alla sospensione del comico, che – esattamente! – non è tragica, ma può limitarsi ad essere, più semplicemente, la traccia di un gioco, o anche di uno scherzo, non concluso (come il gioco linguistico, di fatto minimo, dell’“audio-leso”). Del resto, spazio che si fa ascolto, o all’inverso, ascolto che si fa spazio: non sono questi i processi che leghiamo abitualmente – “tradizionalmente” – alla pratica poetica? Ci sono molti autori che hanno aperto le maglie di questo doppio legame – mi sembra che “apertura” sia talvolta un termine più esatto di “sperimentazione” o di “avanguardia” – ma credo che Querencia si fermi molto prima, cercando ancora di attraversare l’ordito.

G.G.:

del toro, del torero

a parte che il toro è anche un toro nel senso topologico del termine, una ciambella, un pneumatico in cui tutto ciò che è dentro la camera d’aria è in continuità con l’esterno, tra toro e torero c’è dialettica, c’è dialogo incomprensibile e il linguaggio dell’uno è estraneo a quello dell’altro, eppure, nello spazio vuoto dell’arena – e non è un toro, una ciambella, la struttura architettonica dell’arena? – intorno al vuoto plastico dell’azione c’è un discorso. Ma mi viene in mente, a proposito di vuoto e azione, il toro di Falaride, la materia che dentro ci arde e si trasforma nel verso del toro, una eco. Forse la poesia (ancora, perché la poesia non muta, sì invece che è la natura, in fondo, a mutare,) nasce dalla topologia che sistema il poeta nell’universo tridimensionale di un toro, nella disposizione di un nastro di Moebius che tra interno e esterno, tra poesia e non poesia, tra me e l’altro, tra toro e torero non pone soluzione di continuità.

E la poesia di Querencia? La tua poesia, dove origina, secondo te?

L.M.: Non sono in grado di delineare un’origine, ma posso seguire il tuo ragionamento e provare così a trovarne una nuova. In fondo… Il toro di Falaride! Devo ammettere la mia ignoranza, prima che me ne parlassi… Credo che rappresenti molto bene lo scacco al quale va incontro la “dialettica” – parola che cito spesso e che intendo sempre in un senso materialista – quando si incarna nei corpi. Questo processo è stato spesso considerato, giustamente, come una costrizione, un’imposizione dall’alto mortificante, se non anche mortifera. In Querencia si risolve, come sottolinei tu stesso, nel dialogo incomprensibile tra toro e torero, figure che arrivano talvolta a fondersi tra loro. Tuttavia, non sono del tutto convinto che, in virtù di questa intimità incomprensibile, tra interno ed esterno, tra me e l’altro, si disponga sempre un nastro di Moebius; è per questo che la menzione della “dialettica” resiste per tutto il libro e talvolta è accostata alla crisi “epilettica” che sconvolge, dall’interno, il corpo. Come mi ha fatto notare Luciano Mazziotta,[BS1]  secondo Ippocrate chi era affetto da epilessia tendeva ad allontanarsi e a fuggire dalla comunità. Tornando a parlare dello spazio dell’arena, mi sembra che la fuga sia impossibile e che questo dato – pur contribuendo, in principio, al desiderio di uno spazio che le sia proprio – mantenga viva la possibilità della dialettica. Del resto, come ci insegnano gli ultimi decenni, non è sempre da rifondare, la dialettica, su nuove basi?

G.G.:

Predica a lungo. Predica niente. Predica vuoto.

Mi pare tutto, o quasi, ruoti intorno a un vuoto essenziale di dire. Indicibile che deve restare tale. E che si ripete. Un inconscio che ripete, che fa ripetere. Rituale di un gioco. Rotazione, come la rotazione del mondo. La tua forse è una scrittura dell’ascolto, che riproduce l’immagine inconscia, non sono lessemi, quanto immagini non riproducibili, significanti che pigliano senso accostati tra loro ma che non rinviano al significato che si crede essere connesso. Un tempo soggettivo e cosmico, un tempo geologico lento e inarrestabile che pare immobile e invisibile.

Desidera silenzio, o l’ultima parola, che nel desiderio si sente inevitabile. Vista – perduta.

Che ruolo ha il poeta in una società dove, invece, tutto deve essere detto e spiegato, anzi, visto a tutti i costi?

L.M.: Ci sono forse due opzioni fondamentali per controbattere questi imperativi: sottrarre oppure ripetere le parole e le immagini esistenti, sottolineandone così i limiti. Far sì che emerga l’immagine non riproducibile, come dici tu, è un’operazione che si può forse includere nel modo della sottrazione. Oppure no, forse è un’altra opzione ancora… In ogni caso, questa è una prospettiva di cui non so bene. Mi sembra, ancora una volta, che scontiamo le debolezze e i limiti di chi ha voluto proporre parole e immagini alternative, ma, di nuovo, non credo che questo abbia eliminato definitivamente la possibilità di un’alternativa. Sottrarre o ripetere diventano allora strategie per iniziare di nuovo questo cammino verso parole e immagini celate, forse inesistenti, ma che si presentano ancora come necessarie.

G.G.:

dalla caverna     uscire usciremo: lallando

contro ogni paura     contro ogni lallazione ovvero:

Torna e contorna la caverna e il grembo, la poesia della scena madre. La grotta di Chauvet – Chauvet è il titolo della seconda sezione della tua raccolta – dove, come su un corpo, l’uomo lascia traccia più che di sé dell’altro: non è un caso che Chauvet sia un fotografo, e che lo specchio sia ombra, che l’ultima composizione si chiuda e chiuda l’intera opera con lallà

Chi sono i tuoi riferimenti letterari in questo lavoro, intendo anche riferimenti non strettamente poetici? Insomma se hai seguito anche delle tracce legate al territorio, all’antropologia, alla musica o al cinema, alla pittura, se l’altro fuor di poesia ha influito in qualche modo sul desiderio poetico di Querencia.

L.M.: Mi interessa molto questo “altro fuor di poesia” che spesso viene trascurato da poeti e critici, alla ricerca di una tradizione tutta interna, quasi ossessivamente autocentrata, al campo della “poesia” (per di più “italiana”). In Querencia, uno dei luoghi immaginari principali è l’arena della corrida, sulla quale abbondano gli scritti letterari (non solo nella tradizione iberica, ma anche nella “letteratura come tauromachia” di Michel Leiris, un vero e proprio “zozzone”, per usare il termine, precisissimo, che ha utilizzato con me una volta Matteo Marchesini) e antropologici (tra i quali, uno dei miei preferiti è Uccidere spazi. Microanalisi della corrida, del 2013, di Matteo Meschiari, incentrato non su quello che succede nell’arena, ma sugli spettatori). Un altro libro che ho amato molto, e che forse non merita le molte critiche che ogni tanto riceve – dal versante, per semplificare, “animalista” – è Il toro non sbaglia mai (2011) di Matteo Nucci. Il mio, però, non vuole essere neppure un approfondimento tematico: accanto a questi testi, cito gli splendidi racconti in arabo dello scrittore libico Ibrahim al-Koni (La patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, e/o, 2007) e riscrivo parzialmente altri testi, come l’immensa “Traducendo Brecht” di Fortini o ancora l’elenco di varietà di tonno già presente nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo. E poi, ancora, ho invocato numi tutelari molto diversi tra loro come John Berger e Ingmar Bergman. Berger scrisse un saggio straordinario sulle pitture rupestri della grotta di Chauvet, ora raccolto nell’antologia Ritratti (Il Saggiatore, 2018), secondo il quale le pitture emergono attraversando la roccia, nei punti più bui della grotta, quasi che si trattasse di uno dei primi esperimenti fotografici, quelli ancora dotati di aura. Luci d’inverno di Bergman pone la questione del rituale – analizzata con perizia su La Balena Bianca da Marilina Ciaco [BS2] a proposito di Querencia, ma anche dei libri di Giorgiomaria Cornelio e Carlo Ragliani – anche in presenza del “silenzio di Dio”, silenzio metafisico che si può trasporre, e tradurre, anche altrove. In effetti, molti testi di Querencia li ho rivisti salmodiando “Cure for Pain” dall’omonimo album dei Morphine (1993): “Where is the ritual / And tell me where is the taste…”. Un album ormai classico, questo sì, a quasi trent’anni di distanza!


 [BS1]https://www.argonline.it/lossimoro-permanente-%E2%A5%80-querencia-di-lorenzo-mari/

 [BS2]https://www.labalenabianca.com/2020/07/09/poesia-rito-lorenzo-mari-carlo-ragliani-giorgiomaria-cornelio/

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