Carlo Prosperi
«Sono qui, adesso, nel punto esatto / dove devo essere eppure esco / da me stesso in un bagliore verticale» : così comincia una lirica dell’ultima raccolta poetica di Stefano Vitale intitolata Si resta sempre altrove, puntoacapo, Pasturana 2022. L’ubi consistam dell’io, il suo stesso “esserci”, è solo illusorio: detto e nello stesso tempo contraddetto. Né si tratta, a ben vedere, di un caso singolo, di una congiuntura individuale. L’io della lirica anticipa, nella sua esemplarità, il “si” impersonale con cui, a indicare una condizione universale, si apre il titolo, altrettanto ossimorico, della silloge, dove l’hic et nunc del verso sembra a tutta prima trovare una garanzia di persistenza nel verbo “restare”, che dà l’impressione di consolidare la situazione esistenziale enunciata dal «Sono qui, adesso», se non fosse che i due avverbi sono puntualmente e chiasticamente smentiti dagli omologhi «sempre altrove».
Fin da La saggezza degli ubriachi Vitale ci ha abituati ad una logica che non è quella aristotelica de «la contradizion che nol consente», ma qui va ben oltre, tanto che la compresenza dei contrari diventa, per così dire, una costante, se non proprio una coincidentia oppositorum. Si veda, ad esempio, laddove parla della natura, del suo perenne «macinare / e conservare», della sua «smania di scucire / e rammendare», del suo «infinito movimento / che ci sfugge e ci appartiene / torvo, sublime”. Luce ed oscurità, gioia e dolore sono inestricabilmente, misteriosamente connessi. Come per il melvilliano Ishmael, anche per Vitale «ogni qualità al mondo è tale solamente per contrasto. Niente esiste in se stesso». Questa, del resto, è una verità elementare, di per sé già evidente al Socrate dei dialoghi platonici. La legge della natura prevede un’assidua, perpetua transizione da uno stato all’altro: «La Natura non sta ferma / sempre muta si trasforma / ombra che si disfa in altra ombra / luce che s’innerva in nuova luce». Nè ci è dato conoscerne la ragione, perché da lei, «muta», non ci viene alcuna rivelazione, e nessun senso ci è più accessibile. Ci è soltanto concesso di partecipare alla sua inesauribile metamorfosi, e Vitale ce lo dice piegando ad hoc un altro ossimoro, questa volta desunto da Dante: «A maggior forza liberi soggiacere». Non ci resta, in altre parole, che assecondare la legge eraclitea del perenne divenire, che coniuga in maniera misteriosa essere e non essere, «nella quieta servitù dell’attesa».
Forse non ha senso porsi certe domande, tormentarsi in cerca di risposte che non arriveranno mai, escludersi dalla danza di Shiva od osteggiarla nell’illusione, non priva di superbia intellettuale, di essere altro, di vedere più lontano, più a fondo. Ah i lumi della ragione! Peccati di hybris, che si sconteranno solo con pianto e stridor di denti. La soluzione, se così vogliamo chiamarla, è solo nella grata accettazione: quella dell’uccelletto piccino di una celebre poesiola di Diego Valeri, il quale «s’allegra d’esser vivo» nella «luce di rosa» del mattino. Smemorarsi, abbandonarsi alla danza che, volenti o nolenti, ci travolge nel suo tourbillon. Questo Vitale lo dice con persuasiva efficacia: «Passare oltre / la perdita di noi / sciolti tutti i legami / rami senza peso // soglia che si confonde / nell’imparare il senso / della grazia ricevuta / senza merito d’esserci // non più domandare / soltanto stormire / arresi, laceri nella gioia / di questo sostare // e non morire».
Si direbbe amor fati, ma non si pensi ad un esito idilliaco, affatto indolore; si pensi piuttosto ad una immersione nel crogiolo, anzi nel magma luziano dell’esistenza, con quanto di drammatico comporta questa sorta di catabasi. La disponibilità a mettersi incessantemente in gioco va di pari passo con la rinuncia alla propria identità o, meglio, ad una concezione statica dell’identità, tanto consolatoria quanto illusoria. Essere ungarettianamente «una docile fibra dell’universo» confligge con l’impertinenza dell’ex-sistere ed obbliga l’io a misurarsi continuamente con l’alterità, a mettersi ognora in discussione. Di qui quel senso di inappartenenza e di estrema fragilità che Vitale condivide con il poeta de L’allegria, che è – ricordiamolo – una “allegria di naufragi”. Di naufraghi, perennemente votati alla deriva, all’instabilità. Ne è spia il sintagma ungarettiano «Si sta» con cui si apre la bella lirica “Sospensione di senso”, che rimanda irresistibilmente all’incipit di “Soldati”: uno “stare” ossimorico, all’insegna della precarietà, come s’incarica di puntualizzare il prosieguo della poesia. D’altra parte, non troppo diverso è, in Vitale, il «Si resta» con cui si apre il titolo della silloge, solo che, in questo caso, alla suggestione ungarettiana pare sovrapporsi la lezione dell’ultimo Caproni, con la sua logica dello spaesamento e del paradosso. Un concetto, questo, su cui torneremo.
Intanto, però, va sottolineato che la condizione creaturale che l’io sperimenta nel suo gratuito e fortuito “essere-gettato” nell’hic et nunc è anche l’occasione per uscire dal carcere della propria solitudine, per fraternizzare con chi condivide la sua stessa sorte. Non a caso si passa dall’io al si, perché gli altri sono specchi in cui ci riconosciamo. Sono naufraghi come noi, come noi deietti nello spazio-tempo. Compagni di ventura, se non di sventura. La metafora del naufragio è quanto mai attuale, non solo perché ha oggi riassunto uno statuto di realtà che ci richiama al dovere della solidarietà, sì anche perché adombra la nostra condizione di post-moderni che hanno visto sgretolarsi ogni residua certezza, ogni superstite punto di riferimento, sotto l’onda impetuosa del nichilismo, e vagano nel vuoto, senza meta, alla deriva.
Nel crollo delle fedi e delle ideologie che le hanno surrogate, è andata smarrita ogni parvenza di senso e, con esso, rischia di venir meno ogni fiducia dell’uomo in se stesso, per cui acquietarsi fatalisticamente alla legge della natura o alla volontà del destino potrebbe anche essere un alibi o una soluzione di comodo. Una volta che il cielo abbia ceduto «di schianto», da «ruggine e cenere di antiche certezze» può pure germinare qualche «nostalgia del sonno / da cui tutti noi veniamo», del «tempo prima del mondo» o, in alternativa, l’aspirazione al «tempo delle cose senza più nome». Ma questa resa al non-essere e all’indifferenziato – par di capire – non è un esito che possa davvero soddisfare il poeta: non è da lui l’abbandono sconfortato al Nulla, al non-senso. Per lui il senso, più che definitivamente perduto, è soltanto «sospeso»: passibile quindi di essere ripristinato, riattivato. Il suo non è certo un credo quia absurdum e se, con Dante, mutatis mutandis,si spinge a dire che «’n la sua voluntade è nostra pace», è cosa ben diversa dal cupio dissolvi: è entrare in sintonia con l’universo, assentire al «miracolo della vita», al «moto perpetuo» del cosmo.
Per dare un’idea della disintegrazione del senso, ultimo portato della ragione illuministica e della modernità, Borges ricorre alla metafora dello specchio andato in frantumi. La totalità o, meglio, una visione organica d’insieme non può più essere colta se non per illazione o per intuizione, partendo da frammenti, tracce, barbagli o barlumi, indizi. Un’impresa titanica, disperata, demandata alla temeraria follia dei poeti. Ed è appunto questo il compito che Vitale s’impone, fidando nella virtù, magica e taumaturgica, delle parole: che non sono quelle consunte dei commerci quotidiani né quelle isterilite dall’uso burocratico o degradate a funzioni meramente denotative, ligie alla logica e alla norma della corrispondenza biunivoca. No, le parole della poesia sono evocative, trasvalutate da una intensa carica simbolica e metaforica, tali da riflettere o da suggerire, nella sequenza ritmica e fonosimbolica dei versi, l’intima complessità della vita, con i suoi equivoci e le sue contraddizioni. È quella che Marco Marangoni, qui doverosamente citato, chiama «oscura luce dei versi».
Al riguardo è particolarmente significativo il “Prologo”: «Noi non sappiamo da dove né come / possano piovere scarne parole / sullo specchio scheggiato si riflette / il volto ora felice ora ubriaco. // Ma siamo questa forma che rinasce / e si deforma nella necessità / del dire dove si nasconda l’inganno / ma pure la saggezza che ci resta. // Nell’incerta geografia della mente / pulsa una materia misteriosa / impasto di errori e furori / puro cristallo e lucidi coltelli». Le parole della poesia affondano le radici nell’inconscio (là-bas, diceva Rimbaud) e spesso – anche qui, dove Vitale ritorna alle origini palermitane e agli ultimi, toccanti istanti del calvario paterno, sospeso, non a caso, tra qui e altrove – nascono «nel dialogo coi morti», dall’«interrogare ostinato / di chi è vicino assente / e tocca al coraggio della paura / graffiare la tavola bianca / con parole pazienti / ragno in bilico sul filo d’una vena».
Ma a parlare per il poeta, alle prese con l’imbarazzante insufficienza del linguaggio, è forse il suo dàimon? O forse è lui stesso, a inseguire «indizi, presagi, segni imbastiti / promesse senza pretese / tra i lampi delle stagioni / accatastate alla rinfusa»? È lui che s’addentra «nel buio», a mo’ di talpa paziente, «a scavare travasi di luce» oppure qualche misteriosa grazia gli concede di «coltivare fiamme di luce riflessa / arte discreta di richiamare dal buio // piccole cose senza più nome / intima traccia del nostro svanire»? Sia come sia, il discorso del poeta non è mai solipsistico: l’io è plurale e diventa costantemente un noi ; gli interrogativi che si pone, sul mistero dell’esserci e della poesia stessa, sulla possibilità di un senso o almeno di un relitto che ci scampi dal naufragio, riguardano un comune destino: degli uomini e delle cose. Sì, perché sunt lacrimae rerum e la creaturalità non è nostra esclusiva. Anche le rose e le umili myricae esistono nella contraddittorietà che caratterizza il mondo sublunare, nella sospensione, a suo modo miracolosa, «tra il Tutto e il Niente», per dirla con l’espressione gozzaniana che Alessandro Fo richiama nella sua lucida prefazione alla silloge.
Tocca però all’uomo – questo misterioso grumo di cellule e di sogni – e in particolare al poeta il compito di riscattare dall’essere-per-la-morte qualche scampolo privilegiato di esistenza, fissandolo per lampi in istantanee, «oltre il flusso arrogante del tempo». È un atto di pietas e, al tempo stesso, un esercizio quotidiano di igiene e di riassetto, per dare una parvenza di ordine al caos che ci circonda: «Ogni giorno tocca fare / un po’ ordine nel mondo // lavare pentole e stoviglie / sciacquare poi asciugare il lavandino / coltivare il senso del decoro // disfare letti, case, amori / e daccapo di nuovo sistemare / per non lasciare tracce di noi // come fossimo passati lì per caso / pioggia svaporata dopo il temporale / piccola fatica universale». Il risultato di questo paziente lavoro non sarà magari il riattingimento del senso perduto ovvero una restaurazione fedele dell’ordine cosmico, ma ne sarà almeno un succedaneo e forse – chi sa? – un’arra. «Le parole, pensa / inventano l’oggetto / come il sole la luna / un riflesso: perfetto». Insomma, «la chiave è nella parola». Solo, si tratta di trovare le parole giuste: quelle che possono darci «la misura di noi» o, se non altro, fungere da scandagli, da «strumenti di congiunzione / tra qui e l’altrove», aiutarci ad uscire dall’ambiguità in cui versiamo, frastornati e spaesati, incerti tra l’andare e il restare, tra essere e non essere, con l’impressione, già caproniana, che gli antonimi siano in realtà dei sinonimi, e farci in qualche modo da guida nell’avventurarci in quelli che, ancora con Caproni, potremmo chiamare «territori non giurisdizionali».
La poesia è un esercizio di scavo e di pazienza, che richiede «tempo e talento», giacchè si tratta di dare forma a «pensieri slogati» che «scalciano nella testa del mattino». Si può allora capire la frustrazione che assale a volte il poeta quando gli esiti non lo soddisfano. Esemplare in questo senso è la lirica “Alfabeto muto”: «Cerchiamo la parola esatta, àncora / che viene dal bene / che ci afferri come un destino. // Cerchiamo la parola esatta, luce / nella piega delle labbra / nel gesto lieve delle dita. // Cerchiamo la parola esatta, argine / che ci renda lo splendore del silenzio / senza vergogna né rassegnazione. // Ma quel che abbiamo è / un alfabeto muto / passo senza cognizione / pieno d’errori / distrazioni, omissioni». Esemplare dicevamo questa lirica, vuoi perchè l’esito senbra puntualmente smentire l’assunto, assecondando un topos modestiae o un vezzo di understatement che è proprio di tanti poeti, a cominciare da Dante e Petrarca, vuoi perchè molto ci dice dell’arte fabbrile di Vitale, del suo insistito e perspicuo metaforeggiare, della cura con cui provvede al tessuto fonico dei versi, passando dall’anafora alla ricerca di studiati parallelismi ritmici, dalle rime alle assonanze, alle allitterazioni e talora anche alle paronomasie. Fatto sta che l’esercizio poetico è sempre e da sempre una lotta con l’angelo dell’ineffabilità, per cui il calcolo si coniuga con il fortuito, l’imprevisto con il programmato, il conscio con l’inconscio, e il detto lascia talora spazio al non detto. Tra l’uno e l’altro, a volte, a mo’ d’illuminello, balena perfino l’ineffabile. Solo così, del resto, è dato vedere per speculum in aenigmate.