Antonio Loreto

Nella sua letteratura, Nanni Balestrini fa essenzialmente una cosa: gioca con la tecnologia della parola. Quello che succedeva nelle prime opere – Il sasso appeso, le due Tape Mark o Tristano –, quando veniva assegnato al montaggio, al cut up, alla ricombinazione fatta per mezzo di computer il ruolo di procedimenti principe, altro non era che la precipitazione del prodotto tipografico nel pozzo dell’oralità. Ne nasceva una poesia letteralmente rapsodica, un linguaggio formulaico fatto di enunciati preesistenti capaci di trasmigrare da un’opera all’altra, col risultato di riaffacciare noi uomini dell’anno 2000 alla poesia epica delle origini. Ciò che avveniva peraltro con un tempismo perfetto, proprio nel momento in cui Marshall McLuhan e E.A. Havelock, studiando il rapporto fra oralità primaria e alfabetismo, ponevano le basi per individuare il fenomeno che oggi (dopo W.J. Ong) riconosciamo comunemente come oralità elettronica o di ritorno. Laddove i flussi di comunicazione che ci percuotono ogni giorno si mostravano caratterizzati da tutta la frammentarietà, la contraddittorietà, la simultaneità e la ridondanza della parola parlata, alla traccia proveniente perlopiù da libri e giornali Balestrini imponeva tutti questi caratteri, dando corpo ad una nuova letteratura orale (scritta, certo: l’oralità di ritorno non è necessariamente un fatto di voce), una vivacissima epica elettronica, e stricto sensu in certi casi.

Alla fine di questo percorso, che copriva sostanzialmente gli anni Sessanta, il poeta si è trovato per le mani un linguaggio potente che sembrava però aver esaurito la propria forza in prove estreme come Ma noi facciamone un’altra (salvo ripresentarsi rinnovata nel decennio successivo, per sfociare in quel poemetto carico di emozione individuale e collettiva che fu ed è ancora Blackout). Ma soprattutto si è trovato di fronte un mutamento sociale che poteva essere visto come il tentativo di presa di parola da parte di studenti e operai in rivolta, i quali sempre di meno affidavano le comunicazioni fondamentali alla scrittura e sempre più urlavano, cantavano, sintetizzavano in slogan la propria ragione.  In qualche modo si aveva la conferma di quanto azzeccata fosse la ricerca letteraria condotta fino ad allora, una ricerca che provasse a far confliggere i secoli di cultura chiro-tipografica, e finalmente illuministica, con uno degli ultimi suoi frutti: il suo stesso rovesciamento, paradossale ma semplicemente rispondente ad una dialettica ormai nota quale quella dell’illuminismo, appunto.

Conferma a parte, si poneva ora un dilemma in seno alla neoavanguardia e alla sua più giovane creatura, “Quindici”, con la disputa Giuliani-Balestrini che si doveva risolvere a favore di quest’ultimo e dell’idea di ospitare sulla rivista le voci, proprio, della rivolta, di chi scrittore non era e abitualmente prendeva la parola nelle piazze delle città e sui piazzali delle fabbriche. Vogliamo tutto nasceva così, di lì a breve, offrendo peraltro uno sbocco più palesemente epico a tutte le sperimentazioni precedenti. Balestrini allora si era seduto a un tavolo, aveva ascoltato la voce di un operaio dello stabilimento Fiat di Mirafiori, l’aveva trascritta. Trascriverla tale e quale non era questione, perché avrebbe restituito qualcosa di illeggibile e, soprattutto, di falso. Dietro l’ambizione di una resa non mediata di una fetta di realtà, di linguaggio in particolare, si nasconde sempre una mediazione solamente dissimulata, solamente nascosta (e in fin dei conti disonesta), e quindi l’ideologia che pretende di essere dato naturale: una riflessione di questo tipo era assai comune allora, e comunque tante ne aveva dette Balestrini mentre lavorava a Tristano, durante la terza riunione del Gruppo 63, contro i tentativi di mimesi. Poi bisogna intendersi: egli è e si vuole scrittore, individuo che maneggia le parole, dà loro una forma, un’impronta. Anche nel collage e nel cut up ve la lascia: sceglie il materiale da un numero limitato di fonti – sempre le stesse, grosso modo, anche per rendere più limpido il suo impianto formulare – e soprattutto applica loro un metodo di taglio e di montaggio che ne caratterizza il respiro sintattico e più in generale il tono. Valerio Riva, quando sulla quarta di copertina del primo Tristano annunciava un “non stile”, non aveva affatto ragione.

Ora, in Vogliamo tutto, non che far mancare il proprio stile personale, Balestrini lo assoggetta ad un altro stile, quello dell’operaio che ha assunto il ruolo di proto-autore (diciamo così), acquisito di peso attraverso il racconto registrato al magnetofono, ma selezionato, assemblato e aggiustato: in un modo che ricorda il teatro epico di Brecht (e poi il cinema brechtiano di Godard), ci troviamo costretti a considerare le parole che giungono a noi come appartenenti allo stesso tempo (e concretamente) a due soggetti: lì l’attore e il personaggio, qui l’autore e il proto-autore (che è anche personaggio, ma ciò si rivela secondario con Sandokan). Una simile situazione possedeva un significato politico già nel teatro epico, naturalmente, e aveva a che vedere con il caro vecchio principio dello straniamento. Nel romanzo balestriniano l’aspetto politico rimane, ma declinato in maniera del tutto specifica, perché esso in definitiva restituisce (com’è più proprio dell’epica) un soggetto locutore sovra-individuale, che rappresenta la prima cellula dell’unico tipo di soggetto che la fase storica permette sensatamente (e in modo politicamente opportuno) di postulare: il soggetto multiplo, il soggetto collettivo, che non per nulla, al di là del soggetto locutore, trova la sua prima figura corrispondente nel personaggio dell’operaio-massa.

Balestrini prende in carico la parola dell’operaio ripulendola da tentennamenti, pause, ridondanze, contraddizioni, ripensamenti, serviti tanto bene a straniare la parola scritta e a porre l’attenzione sulla fenomenologia della comunicazione contemporanea, sul suo e sul nostro fiato corto, spezzato. Il discorso voleva essere reso più arioso, perdere l’affanno d’origine e acquisire (e concedere di nuovo al lettore, dopo tante ma salutari frustrazioni) un più largo respiro. Si capisce che per il progetto di una nuova epica il problema del ritmo e del respiro doveva essere inteso in tutta la sua centralità, e si capisce pure che se il problema dibattuto nella redazione di “Quindici” era relativo ad una cessione di parola, ad un aumento dei soggetti attivi del discorso, la soluzione non poteva che prevedere una collaborazione – oltre che con un proto-autore – con il lettore; collaborazione del resto ricercata fin dagli esordi (vedi le “istruzioni per l’uso” del Sasso appeso e le “tavole di lettura” di Come si agisce), mentre parallelamente Umberto Eco preparava Opera aperta, ma per una élite che adesso non è più interlocutore privilegiato. L’idea sembrava essere un po’ questa, anche se Vogliamo tutto non la realizza subito pienamente per una ragione banale: conservando la punteggiatura l’opera continua ad imporre al lettore il proprio ritmo, e in misura maggiore nelle edizioni precedenti alla mondadoriana del 1988, quando oltre ai punti fermi frammezzi alle singole lasse vi era anche tutto un apparato dispotico di virgole e due punti.

Ecco allora che in Gli invisibili, libro capace di riprendere e portare a compimento il disegno nato con il romanzo operaista, la testimonianza del militante politico che racconta la propria appartenenza ad un collettivo degli anni Settanta e la violenza con cui il potere ne ottiene la disgregazione viene messa in pagina con l’accorgimento di eliminare del tutto i segni di interpunzione e lasciare a ciascun lettore la facoltà di seguire il proprio respiro, la propria metrica istintiva. Anche in questo si è trattato di essere onesti rispetto alle possibilità dell’arte: e di trasformare il ritmo dell’oratore – che in ogni caso non sarebbe passato sic et simpliciter attraverso la trascrizione – in un ritmo del lettore, o meglio, in un campo di possibilità entro cui il lettore fosse lasciato libero di cercare – di ascoltare, in un certo senso – con la sua metrica istintiva quella con cui il militante narra la propria storia, e di accordarvisi.

Fino qui Balestrini ha sostanzialmente rappresentato la dimensione collettiva di una voce individuale. Il passaggio seguente, e conseguente, è valso a mettere la prassi ormai consolidata alla prova di una coralità vera e propria, prima ristretta e ben fisica (I furiosi), poi esplosa in numero e in consistenza materiale, espressa e raccolta attraverso uno dei media originariamente più rappresentativi dell’oralità elettronica, la radio: sedici anni fa Una mattina ci siam svegliati e ora il nuovo Liberamilano si costruiscono con le centinaia di voci trasmesse dalle frequenze di Radio Popolare – dei suoi speaker e dei suoi ascoltatori, pure qui coinvolgendo gli estremi della comunicazione – in occasione di due grandi giornate di una città tra le più umiliate da un potere basso, incapace e volgare. Una giornata di resistenza e una di speranza, raccontate da quelle centinaia di voci passate per l’etere che la nuova oralità svincola dal concetto di «io» (Havelock), «ritribalizza» (McLuhan), e che il lavoro, lo stile di Balestrini riesce a far confluire in una voce sola – una anche con quella di chi legge –, punto di intersezione tra la parola di oggi e quella delle origini, forse anche luogo in cui l’oppresso torna ad essere, o diventa, uomo libero.

Antonio Loreto

[postfazione a N. Balestrini, Liberamilano seguito da Una mattina ci siam svegliati,

DeriveApprodi, Roma 2011, pp. 231-236]