Gianluca Garrapa: 

È la storia di un romanzo, forse la storia di una storia della decadenza del romanzo classico. Joyce, Musil, Kafka, Faulkner. È la storia di una storia che Daniele Stern vorrebbe scrivere. È la storia di una ripetizione: ripeto: se il romanzo è morto, perché scriverne e perché continuarne a leggere le veglie e i fotoricordi dei fasti?

I capitoli del romanzo eventuale di Stern ruotano attorno alla ripetizione. Sesso, madre, amico, dottore, sesso. Senso di colpa, tutto è doppio, la bisessualità. La trama non trama nulla e non colpisce le scene. Doppio il binario come la scia dei due ascensori nella vista-visione del narrante (vero e\o falso) una sera dal letto. Lei e lui. Lui e lui. I gemelli. La scissione. La fusione di stili differenti. Ecco, la farei finita con questo bordeggiare continuo: uso il termine di ‘scrittura desiderante’ per gli agiti del linguaggio da un certo punto in poi della storia letteraria. Si è scoperto il desiderio. La possibilità di non essere solo nevrotici ma anche perversi: sappiamo l’errore eppur lo commettiamo, sappiamo come si costruisce il romanzo eppure lo decostruiamo.

Ma allora diciamo la Cosa di Sinigaglia, non il romanzo: ricordati di ricordarmi quella cosa che ho dimenticato.

La Cosa scritta che ruota intorno al buco nero, fuor del pantarèi, fuor del passaggio, del transito, c’è l’annichilimento del tempo, la fissazione al primo godimento (materno) che confonde amore e morte, gettatezza e deiezione: fenomenale e fenomenica la merda in epilogo. Merda di artista, già richiamata dal wrom del peto, come in un budello dantesco. Peto. Ripeto. A che serve la memoria? A restare imprigionati. Imprigionati dove? Nel discorso dell’Altro, dell’altro. Per altro, il finto romanzo racconta i contorni del romanzesco che avvengono, tra prima e terza persona, tra il soggetto dell’inconscio e l’altro, o tra soggetto e io, tra narrato e narrante, che avvengono nel quotidiano di Stern, ciò che avviene all’esterno di Stern – i suoi amori, i muri, il lungo monologo à la Molly Bloom nel capitolo dedicato ai giardini di tolleranza, ‘uomini innocenti dagli istinti un po’ bestiali, cercano l’amore dentro i parchi e lungo i viali’, lungo monologo in cui l’amore è forsennato dall’assenza di interpunzioni, flusso desiderante in cui il soggetto sembra scorporarsi dal suo corpo: faticoso mi è invece come scavare nella memoria di un altro – di Stern che deve consegnare, entro una settimana, il suo lavoro sul romanzo del ‘900 in poco più di quaranta pagine dove raccogliere il francese Marcel Proust, l’americana (ma molto europeizzata) Gertrude Stein, l’irlandese James Joyce, l’inglese Virginia Woolf, l’italiano Italo Svevo, i tedeschi Hermann Broch e (nonostante il suo conservatorismo letterario) Thomas Mann, l’austriaco Robert Musil (e l’elenco potrebbe allungarsi, sia pure con qualche piccola forzatura, di altri nomi, come quelli del praghese – di lingua tedesca – Franz Kafka e dello svizzero-tedesco Robert Walser).

Stern significa stella. Le stelle vivono di luce differita, noi percepiamo la luce dell’esplosione avvenuta miliardi di anni fa. Di Stern notiamo il passato presente. E il futuro è un ulteriore passato. Stern, saggista e romanziere, allo stesso tempo. Ma cosa s’intende per tempo? e chi è Stern?  Tu, ad esempio, sei contemporaneamente un uomo arrivato e un uomo dipartito. Stern è un quasi computer quantistico: fa convivere i due stati possibili di un presente assente. Essere o non essere, nessun problema. Scrivere del romanzo morto. Che non è morto. In un modo che collochi il romanzo: attore e personaggio collocano l’io e il non-io. Bene: romanzo e non-romanzo collocano il non-non-romanzo. Dunque non è questione di vita o di morte, ma di desiderio come molla della scrittura. Misurarsi con la poesia, creazione, e il siderale, de-siderale, le non stelle. Sì, la luce è quella di stelle che, nel dato momento in cui l’occhio le osserva, non sono più: Misurarsi con le stelle rese tutti pensosi e un po’ preoccupati. Silenzi sconfinati discesero negli animi. Ciascuno fu attraversato da sensazioni inquietanti: accecanti bagliori, oscurità vertiginose, inaudite solitudini: è questo che accade nel romanzo.

Motto di spirito e morto di spirito. I giochi di parole: Le parole, come gli occhi di grasso, orbitano pigramente sulla superficie del linguaggio, arricchendosi continuamente di nuova materia risalente dal fondo e attraendosi l’una con l’altra a formare mostruosi agglomerati.

Rebus, anagrammi, quasi-poesia visuale: Daniele Stern avverte la necessità di tale scelta proprio dopo la parte saggistica dedicata a Céline – penso anche a «Me qualo fa, qualo fa?! È mato?» esclamò. «Ba ba ba ba ba. Qu’est-ce que c’est ça? Pour un cendrier. Olalà! No ve ho dato nianche una cossa de bere. Vulete una tassa de tè? U bene on cognac?» al pasticcio linguistico, ai ruoli, pure, che il linguaggio assegna a chi ne fa uso e abuso – dove si spiega che la lingua, di Céline, non ha nulla di spontaneo: è, al contrario, un paziente e laborioso artificio, che ci puoi dire della lingua di Stern?

Ezio Sinigaglia:

La lingua di Stern è molto più sperimentale della lingua “media” del Pantarèi, se vogliamo prestar fede alla finzione narrativa. Mi spiego meglio: nell’ultimo capitolo del romanzo salta fuori all’improvviso un romanzo incompiuto del protagonista, Daniele Stern, di cui possiamo leggere l’intero frammento esistente (il primo capitolo e una parte del secondo). È appunto questo romanzo, intitolato L’altro Sax, ad essere estremamente, direi quasi disperatamente sperimentale. Siamo di fronte a un io esploso, che la lingua tiene insieme per una trentina di pagine. Come riesca, la lingua, a fare da collante di questo io frammentato, polverizzato, sempre esitante fra un presente evanescente e un passato non si sa se più vissuto o sognato, non è chiaro: probabilmente è un effetto della prosodia, di un ritmo fra suadente e ossessivo che incatena reale e immaginario, tenendoli uniti a viva forza. È una prosa-filastrocca, direi, piuttosto originale. Il pantarèi non raggiunge mai simili livelli di audacia nel dubitare di ciò che racconta, neppure nel sogno post-kafkiano del capitolo VI. Quindi si possono fare due ipotesi, la prima delle quali paradossale e tendenzialmente un po’ schizofrenica: Stern è uno scrittore più sperimentale di Sinigaglia. La seconda ipotesi, più realistica, è che anche il romanzo di Stern-Sax ci parli sottotraccia del romanzo del Novecento, non diversamente dal romanzo di Sinigaglia-Stern: L’altro Sax è più sperimentale del Pantarèi perché, nella finzione, è stato scritto qualche anno prima, dunque – è da presumersi – nella prima metà degli anni Settanta, quando lo sperimentalismo conservava ancora qualche sussulto di vitalità. Il 1976-77, l’anno in cui viene intrapresa la stesura del Pantarèi, non è già più tempo di sperimentalismi così audaci. In questo caso la frase un po’ oscura di p. 308, che chiude i conti con Sax (“Non era quello, no di certo, il romanzo che Stern avrebbe scritto. Quello era un romanzo improseguibile, stranamente, perversamente compiuto nella sua incompiutezza”), avrebbe un duplice significato: (1) il romanzo non può essere proseguito perché la storia di Sax è morta e sepolta nella memoria di Stern, e dunque il romanzo incompiuto è perversamente compiuto perché Sax è un’esperienza conclusa e non ripetibile, non riapribile; (2) il romanzo non può essere proseguito perché è un frammento di romanzo che viene dal passato, una sperimentazione epigonica, e dunque il romanzo incompiuto è perversamente compiuto perché quell’esperimento di letteratura è un’avventura conclusa e non riapribile.

Notevole è comunque, nel laboratorio di Stern, il contrasto fra la prosa-filastrocca ossessiva e incalzante dell’Altro Sax, la prosa saggistica, pacata e razionale dei suoi testi sui grandi autori del Novecento, la prosa burocratico-cavillosa della “Scissione del ragionier Sperindio” (la “novelletta” in due parti che figura nel capitolo VII), la prosa fluvial-autoanalitica delle “lettere scritte camminando” e, per finire, la versificazione beffarda e parodistica, fra dannunziana e vispateresina, dei giochi enigmistici. Insomma, sono abbastanza soddisfatto di aver creato un personaggio-scrittore così poliedrico. Mi sembra il personaggio-scrittore più adatto per un romanzo sul romanzo del Novecento.

 G.G.:

Sempre in questa zona del romanzo, Stern scrive, continuando con Céline: La sua prosa sembra girare inquieta intorno all’oggetto da descrivere, senza mai poterne trovare l’esatta definizione. Ricorda molto il punto dove Dario Sax, gira e rigira, torna e ritorna su quest’antico concetto di colpa legato al rapporto sessuale, e Dario non sa dire, non ricorda, rimuove, muove l’attenzione. Mi sembra un buon modo per definire la scrittura come arte di bordeggiare il vuoto di Das Ding, del godimento primario materno: al buco nero – E “buchi neri” non è forse anch’essa una parola-chiave, che ci consente di entrare non solo nella giornata ma direi persino nell’universo di Stern? – del godimento non ci si può avvicinare più di tanto senza restarne inceneriti, accecati. Il bello dell’arte è una difesa, barriera, che permette di visualizzare l’osceno del corpo e dell’incestuoso, senza farsi annientare dalla Cosa: la cosa è sempre in agguato. Ma si produce, quasi immancabilmente, solo quando il desiderio che mi guida è così intenso da sublimare i miei gesti in un estraniamento totale: per Stern il sesso è una colpa, ma anche un’attrazione fatale che lo trascina lungo la settimana fino alla consegna del lavoro: la scrittura è legata al corpo? In che modo?

 E.S.:

C’è un luogo del Pantarèi che mi sembra fornire una risposta molto chiara (ammesso che sia possibile essere chiari quando si affronta questo genere di meccanismi oscuri) alla tua domanda. È un frammento del lungo flusso di coscienza del capitolo VIII, quello che comincia in fondo a p. 245. Ecco qui: “…Stern ricorda la prima volta anche allora andava dipanando nella mente la matassa di un racconto mentre camminava nella notte”. Nel presente narrativo Stern sta andando a caccia di ragazzi in quelli che poco più avanti (p. 252) definirà “pubblici giardini di tolleranza”, e “ricorda la prima volta” in cui ci è andato, molti anni prima. Quella prima volta Stern non era assolutamente consapevole del proprio desiderio. Stava semplicemente andando a spasso. Camminava, e intanto dipanava “nella mente la matassa di un racconto”. Scrivere camminando è un tratto caratteristico del personaggio, che emerge fin dal primo capitolo (il “dopoproust”) e diventa macroscopico nel settimo, con i rebus, gli indovinelli, i giochi di enigmistica, “La scissione del ragionier Sperindio”, la “Lettera scritta camminando”. Un’abitudine che, evidentemente, Stern aveva già nell’adolescenza (e che, lo dico fra parentesi, già di per sé lega in qualche modo la scrittura al corpo). Questa volta camminava “nella notte”, allontanandosi sempre più da casa e dai quartieri animati e illuminati della città, “ma non si domandava neppure perché lo facesse”, e intanto continuava a scrivere con la fantasia, “ed erano frasi intere che gli sgorgavano da un estro notturno disponendosi l’una accanto all’altra gradevolmente su una pagina immaginaria che però gli era ben presente”, eccetera eccetera. Finché, in modo del tutto inaspettato, il suo racconto, “seguendo una direzione esattamente opposta a quella di Stern che guadagnava a passi lesti la periferia”, prende a correre “infine verso il suo centro”, e il centro è il suo desiderio, che covava ardente sotto la superficie del racconto e che finalmente troverà modo di appagarsi in quei “giardini di tolleranza”: “e seppe allora senza che lo sfiorasse l’ombra di un dubbio seppe che la meta di tutto quel suo vagare e raccontarsi racconti e rinnegarsi era il guscio cavo e sussurrante di quel giardino”.

Il rapporto fra la scrittura e il corpo è dunque molto forte. In apparenza (stando, diciamo così, all’ordine cronologico degli eventi) è lo scrivere, ancorché puramente immaginario, è il racconto che Stern si racconta da solo a generare il desiderio del corpo. Ma in realtà sappiamo bene che è il contrario: il desiderio (negato, represso perché proibito: il desiderio di un ragazzo) trova un primo sostituto abbastanza classico, uno di quei toccasana da sempre consigliati agli adolescenti come rimedio contro l’eccessiva produzione di steroidi e come valida alternativa alla masturbazione: l’attività fisica, se non propriamente sportiva. Stern è un gran camminatore, ma evidentemente questo consumo di calorie non gli è sufficiente: all’attività sportiva aggiunge per sovrappiù quella letteraria. Un tentativo di sublimazione, potremmo dire, ma questa volta vano. Forse, da allora, vano per sempre. Scrivere, come camminare, è diventato un modo di ascoltare il suo corpo “che implora aiuto”.

Non vorrei però dare la sensazione di considerare, come è così tipico del nostro pensiero occidentale, il corpo come qualcosa di separato dallo spirito, dall’intelligenza. Ecco perché trascrivo qui un altro passo del romanzo, la frase che conclude il breve saggio scritto da Stern su Joyce: “Quello che alla fine prende risalto dalla sua pagina è l’uomo, tutto intiero, fascio di nervi e di muscoli, completo di ogni sua parte, corpo e intelletto, l’uno all’altro fuso e contorto: se Joyce ha dissolto tutte le sopravviventi unità del romanzo, ha però restituito all’uomo l’unità del suo organismo”.

Ecco in che modo la scrittura è legata al corpo: nel costringerci a prendere consapevolezza che corpo e intelletto sono una cosa sola.

 G.G.:

Un romanzo di oggetti, rivisti, riletti, assenti alla loro funzione, alla predisponibilità. Il pomo d’ottone, che, nell’ultimo gesto di Stern, chiude il romanzo. Gli oggetti hanno memoria, parlano, coercitivi, impediscono, ostacolano, ma anche facilitano. Il partito preso dell’oggetto: L’oggetto verdeggiava sulla scrivania. Alla luce delle pagine dedicate a Robbe-Grillet, tutti i romanzi di Robbe-Grillet sono fittamente abitati dagli oggetti e tutti gli oggetti emergono dallo spazio che li circonda con questa stessa linearità asciutta e geometrica, freddi, nudi, che cosa sono gli oggetti per Daniele Stern?

E.S.:

Anche in questo caso cercherò di estrarre la risposta dal testo, come mi piace sempre fare quando scrivo di libri: sia dei libri degli altri sia dei miei. A p. 275, quando Stern ha appena finito di scrivere l’ultimo capitolo del suo lavoro, quello su Robbe-Grillet, e si appresta a tirar fuori da un cassetto/tomba “la mummia” del suo romanzo incompiuto, si legge questa frase: “Pesava, su quel pomeriggio di sabato, una cert’aria fatale: la luce del sole autunnale invadeva la stanza come una specie di contagio. C’era, in quella luce, qualcosa di morboso, una trepidazione, un’ansia febbricitante che sembrava propagarsi agli oggetti, richiamando dai loro sensi assopiti una dimenticata possibilità di inturgidire”. Se ne può arguire che per Stern gli oggetti non sono del tutto inanimati: sono dotati di “sensi”, generalmente “assopiti”, ma che possono essere richiamati in vita. Si direbbe che qui, verso la fine del romanzo, faccia incursione il nume tutelare del primo capitolo, Proust, a proposito del quale Stern ha scritto (p. 42): “Le cose, gli oggetti in mezzo ai quali ci muoviamo spesso inconsapevoli e ciechi, conservano il ricordo del proprio e del nostro passato”. Un gioco della memoria, dunque: collocato subito dopo il saggio su Robbe-Grillet, nei cui romanzi gli oggetti (p. 270) “giacciono ghiacciati nella loro solitudine, privi di qualsiasi significato, incapaci di ogni emozione, nutriti della propria unica reale qualità: quella di esistere”, questo richiamo alla “epidemia di luce” (p. 43) della memoria proustiana ha tutta l’aria di un manifesto teorico che anticipa il finale: il romanzo non è morto (e Stern ne scriverà uno per dimostrarlo). Forse è proprio questa vita “assopita”, e pronta a risvegliarsi, degli oggetti che ci circondano a rendere immortale la letteratura, e il romanzo in special modo. Non so se questa frase abbia senso, ma mi viene da dire: se neppure gli oggetti sono veramente morti, come può essere morto un repertorio inesauribile di soggetti e di oggetti qual è il romanzo?

G.G.:

Romanzo di ombre, di doppi, di gemelli, di storie nella storia, come la scissione del ragionier Sperindio, rispecchiamenti, ieri ho incontrato – non so come dire: sosia? gemello? Ieri ho incontrato il mio gemello, porta a vetro allucinata. Poi Stern, durante una delle sue solite camminate alla Joyce, entra nella LIBRERIA  ONNISCIENZA e scova un libro, il primo capitolo: Capitolo I \ Come zio Rubens entrò nella mia vita: \ il mistero di Trowaraghi o dell’allungamento del braccio destro: le origini, sempre le origini di qualcosa, la fissazione del nevrotico è questa. Ma ho pensato a questo molto dopo, dapprima m’è saltata in mente la genealogia di Gargantua e Pantagruele. Che rapporto hanno Stern e Ezio Sinigaglia con gli autori classici, quelli vivi e morti prima del Novecento?

E.S.:

Sono stato un lettore voracissimo, onnivoro e disordinato per tutta la vita, ma mai tanto onnivoro e disordinato come nell’adolescenza, quando mi facevano ancora difetto i criteri di catalogazione e di giudizio. I miei genitori erano entrambi, a loro volta, “lettori forti” (benché il termine a quell’epoca non fosse ancora stato coniato), la casa rigurgitava di libri e io leggevo tutto quel che mi attraeva alla prima o alla seconda occhiata: così, senza alcun discernimento e, in linea di massima, senza alcuna censura materna o tanto meno paterna. Perciò le mie prime esperienze di lettura “adulta”, fra i tredici e i quindici anni, andarono saltellando da Stevenson a Balzac, dal Gattopardo alla Saga dei Forsyte, da Madame Bovary al Dottor Zivago, da un pruriginosissimo Peyrefitte a uno sconvolgente Santuario di Faulkner (del quale in seguito dimenticai titolo e autore, tanto che mi trovai a rileggerlo con sbalordimento ai tempi del Pantarèi), da Somerset Maugham a Thomas Mann, da Dostoevskij a Evelyn Waugh, dai Racconti del terrore di Poe a Tre uomini in barca, e addirittura da Neve sottile di Tanizaki nell’edizione Martello del 1961 a Turms l’etrusco di Mika Waltari in quella Rizzoli del 1957. Libri che, spesso, mi portavo a letto scegliendoli sulla base del loro peso o del loro colore, tessendo nella mia mente rapporti di analogia che si fondavano sull’esotismo dell’ambientazione o, magari, sulla grana della carta o la sensualità del profumo. La si direbbe una formazione poco men che disastrosa, da autodidatta senza sale in zucca. Credo invece che sia stato un dono della provvidenza. Fin da bambino avevo la fissazione della segretezza. Mi mettevano a letto entro le nove e non mi addormentavo per ore: non ne feci mai parola con nessuno. Altrettanto segreta fu, nell’adolescenza, la mia vita notturna di lettore. I libri li nascondevo sotto le lenzuola, come amanti. Aspettavo che la casa fosse addormentata e li tiravo fuori, leggendoli al lume fievole di una lampadina piccola piccola. Ben di rado si sapeva in famiglia quale libro stessi leggendo, e mai parlavo di quello che avevo appena letto. Si aggiunga che a quei tempi, nei primi anni Sessanta, non usava corredare i romanzi di apparati critici come – almeno per i classici – è pressoché obbligatorio fare oggi. Le introduzioni e le prefazioni erano rare come curiosità numismatiche, e le postfazioni non erano state ancora inventate. Ricordo che le copertine dei libri della Medusa presentavano, i più antichi sulla controcopertina e quelli più recenti su una delle due alette, una divagazione sul contenuto del romanzo, di solito molto reticente e, nell’insieme, decisamente più oscura del romanzo stesso. Ma anche questo era un caso non comune. Insomma, il mio giudizio si formava interamente nel corso della lettura. Era il mio giudizio, e non quello di altri. Questo mi aiutò moltissimo nell’elaborazione di un gusto letterario, o di un’idea di letteratura. Facevo anche classifiche, naturalmente segretissime: al primo posto salì dapprima Jerome K. Jerome, che fu detronizzato via via da Dostoevskij, Balzac e Flaubert. Poi, nel 1964, arrivò tutt’a un tratto Il male oscuro, e i miei gusti cambiarono, modernizzandosi per sempre. In seguito sono rimasto, beninteso, un lettore onnivoro e disordinato, ma mi sono concentrato in modo quasi esclusivo sugli autori del Novecento: oltre agli otto che compongono il canone del Pantarèi, anche Virginia Woolf, Hermann Broch, Samuel Beckett, Max Frisch, Georges Perec, per citare i più amati, e fra gli italiani soprattutto Calvino, Primo Levi, Gadda, Pizzuto, Antonielli. Negli ultimi trentacinque-quarant’anni, poi, ho letto una quantità inverosimile di gialli di ogni genere, scoprendo autori (e autrici) di grande qualità (come Patricia Highsmith, Ruth Rendell, Ed McBain) che ancora leggo e addirittura rileggo, sempre con piacere.

G.G.:

Stern, verso la fine o verso l’inizio, dice, riguardo al proprio romanzo: Non era quello, no di certo, il romanzo che Stern avrebbe scritto. Quello era un romanzo improseguibile, stranamente, perversamente compiuto nella sua incompiutezza.  Ci puoi raccontare le vicissitudini del Pantarèi, nato, morto, risorto? E perché è così difficile un romanzo sperimentale in Italia. È difficile? O non ci si riesce. Stern, lo scriverà mai questo romanzo?

E.S.: 

Il pantarèi ha vissuto – possiamo dire – quattro fasi. La prima, lunga tre anni e mezzo (dall’autunno 1976 fino all’aprile-maggio 1980), fu quella meravigliosa della stesura: una felicità irripetibile perché, è proprio il caso di dirlo, panta rei: il primo libro si può scrivere una volta sola. La seconda, la più infelice, fu quella dell’attesa della pubblicazione: per oltre quattro anni il romanzo circolò presso quasi tutte le case editrici di una certa importanza allora esistenti, suscitando dovunque curiosità, talora ammirazione e sistematicamente rifiuti. La terza è quella dell’illusione presto delusa, con la pubblicazione da parte di SPS nel 1985 e il nulla che ne seguì. La quarta è questa esperienza di rinascita che il libro sta vivendo dopo la nuova pubblicazione con TerraRossa. Quindi quattro fasi: infelici quelle centrali, felici le due estreme. È evidente che la fase decisiva, quella che ha segnato il destino del romanzo, è stata la seconda, cioè quel lungo periodo in cui mi dovetti misurare con le imperscrutabili strategie (ammesso che ve ne fossero) delle case editrici italiane. In molti mi hanno chiesto perché, a mio giudizio, Il pantarèi non sia stato pubblicato quando, con tutta evidenza, doveva esserlo, cioè nel 1981-82. In generale le ipotesi che formulo per spiegare un fatto, o per meglio dire un non-fatto, così inspiegabile non soddisfano l’interlocutore. È logico: spiegare l’inspiegabile è sempre problematico. Anche l’ipotesi che tu sembri avanzare, che cioè l’editoria italiana non sia mai stata favorevole al romanzo sperimentale, è fra quelle che ho proposto io stesso. Anzi, forse, fra le tante possibili, è la più ragionevole. Tuttavia non corrisponde interamente a verità. C’era un tipo di sperimentalismo che riceveva ottima accoglienza presso gli editori italiani: era, per paradossale che possa apparire, lo sperimentalismo del cosiddetto “anti-romanzo”, i cui esponenti pubblicavano i loro libri (libri, non romanzi, ovviamente) con i più prestigiosi editori ed erano trattati con molto rispetto. Se ne può dedurre che gli editori italiani fossero autolesionisti, visto che scopo dell’anti-romanzo era distruggere il romanzo, grazie al quale gli editori stessi campavano…

Quanto all’ultima domanda (“Stern lo scriverà mai, questo romanzo?”), mi sembra che il testo risponda di sì. Si direbbe proprio che Stern, alla fine, abbia ceduto alle lusinghe del Maligno, del Sobillatore, insomma di Satana (vedi capitolo VII) e abbia dunque deciso di scrivere un romanzo che ha tutta l’aria di essere lo stesso Pantarèi. C’è purtroppo da dubitare che, una volta completata l’opera, riesca a pubblicarla prima delle calende greche.