Paolo Maccari

 

Presentiamo una versione più estesa della postfazione scritta da Paolo Maccari per Commiato da Andromeda, volumetto di Andrea Inglese pubblicato dalla casa editrice di Livorno Valigie Rosse in occasione del Premio Ciampi 2011 per la poesia italiana.

 

Commiato da Andromeda è l’anticipazione di un libro più ampio a cui Andrea Inglese sta lavorando da tempo e che, ci informa, avrà al centro la città di Parigi. Già questo intenso capitolo tuttavia espone una tenuta autonoma e conclusa che permette di fruirne, in attesa dell’opera completa, come di una felice ouverture.

Per chi coltiva la rassicurante abitudine di chiudere in una definizione il testo che ha letto, le pagine del Commiato daranno qualche grattacapo: non si tratta di un romanzo, neppure se tentiamo di specificare con un aggettivo il suo statuto (autobiografico, lirico, di memoria ecc…), non di una serie di racconti, né di racconti alternati a poesie, né di prose liriche, né di poesie stese in prosa. Deludente anche la definizione di prosimetro, che addita una categoria esterna, puramente tipologica. Da parte mia, proporrei per una volta l’astensione definitoria e categoriale. L’efficace sperimentazione di Inglese, in questo frangente, prima ancora che il dialogo con una tradizione o un apparato retorico offre del passato, e del presente che lo osserva, una figura appropriata e smarginata di monito, un’esperienza che proviene da una toccante coscienza biografica e che torna a farsi, aumentata, coscienza biografica, e letteraria, e sociale. Tutto si tiene proprio perché tutto mostra la corda e si allenta in un pulviscolo di manchevolezze che l’autore registra con una passione accuratamente dissimulata.

“Una poesia – ha scritto Giovanni Raboni – non serve quasi mai a fare scoperte ma quasi sempre a consolidare in modo tutt’al più obiettivamente straziante alcuni luoghi comuni”: la fine di una storia d’amore, “l’inevitabile e masochistico (…) esercizio eziologico” di chi interroga un determinato passato alla ricerca dei suoi momenti focali, degli indizi precoci della fine: intere biblioteche sono dedicate a questo tema. Inglese lo affronta dietro un’urgenza che per essere altrettanto comune non per questo nasconde il suo lato scopertamente, quasi impudicamente privato. C’è dunque un amore finito, “obiettivamente straziante”, e uno splendido quadro, La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, che sembra l’equivalenza figurativa del complesso rapporto di coppia “esploso”. Lui, Perseo, uccide graziosamente il mostro e salva lei, la fanciulla legata, sul punto di essere divorata. Inglese conosce bene la malizia di questa figurazione alla luce delle fantasie pop che inondano l’immaginario nostro: il mito si può risolvere, e dissolvere, nel fumettone. Ma proprio per la sua scivolosità semantica la sfida è più avvincente (tutto il libro è una sfida al luogo comune, che viene gremito da una serie dettagliatissima di realtà psichica, fino al suo ricaricamento di senso). Perseo e Andromeda partecipano del mostro, lo portano in loro, lo secernono a loro uso e consumo; disperatamente in cerca di un ruolo, vale a dire di un’immagine di se stessi plausibile, si avvinghiano sotto l’insegna dell’amore, obliterando nella sua consuetudine il movente primo di ogni unione: il desiderio di protezione, il sigillo di un’esistenza riconoscibile e consona a un sistema di valori relazionali che sono tanto  impliciti, o addirittura negati, quanto efficienti nell’esercitare il loro più o meno conscio imperio: “Perseo ero io, ossia l’eroe, convinto del mio mestiere, attrezzato a modo, solerte nei balzi, raramente saltavo un giro”; nella sua strage delle illusioni, l’autore procede rischiosamente, senza  paracadute di ordine consolatorio. Il referto e l’analisi del passato sono improntati a un severo laicismo, per l’appunto leopardiano: l’idillio è spazzato via dalla consapevolezza dell’architettura auto-protettiva (anti-sismica?) dell’edificio che ha concorso a realizzare e a tenere in piedi; la morbida elegia del passato, comune a tanta letteratura del ricordo amoroso, è parimenti negata dalla lucidità implacabile di una memoria tutta intesa a una ricerca, si è già citato, di tipo “eziologico”. Inglese vuole capire, in primo luogo se stesso. È un gioco pericoloso quando viene preso seriamente come in questo caso: dalla comprensione si passa al giudizio: e se i giudizi senza condanna non riguardano processi così onesti, la tentazione-attenuante di risolvere lo scavo interiore nel riconoscimento di un abisso insondabile è ancora romanticismo da cui fuggire. Infatti non si mitiga mai questo studio memoriale con la falsa modestia, di fronte ai nodi insolubili, di chi allude, demandando al luccichio misterioso degli oggetti un significato imprendibile. Ogni oggetto è spiegato, scoperto: l’elemento drammatico sta proprio nel suo disvelamento, nel suo significare ed essere compreso. La tragedia, si direbbe, della comprensione, quando ci assale ma non ci abbaglia, non ci inebria, non suggerisce alternative di fuga: e allora non sappiamo più sotto quale mantello colorato nascondere il grigiore affilato del senso di colpa.

Il fraseggio dell’opera ha un andamento che è insieme centrifugo e concentrico: il ricordo è braccato e bloccato attraverso un movimento accerchiante di frasi che dettagliano, procedono dall’approssimazione al fulcro esatto a forza di correzioni, gamme sinonimiche, ossimori e inventive equivalenze metaforiche. Un’istrionica e indomita razionalità fa lampeggiare il testo di trovate non tanto sul piano lessicale bensì su quello di rapporto tra parola e parola, concetto e concetto. Il che agisce anche a livello culturale, laddove riferimenti nobili vengono convocati a interagire con una fantasia spigliatamente contemporanea (sicché l’illustre personaggio di Perseo, icona sublime della letteratura e delle arti figurative, diventa, al momento di vibrare il colpo mortale contro il mostro “come un tennista che prepara un rovescio abnorme”, e subito dopo viene descritto “un po’ Flash Gordon, un po’ Yves Klein”). C’è del volontarismo post-moderno in questa attitudine? Certo non si tratta più, oggi, di desacralizzare un contesto di cultura alta già da decenni sbriciolato, e Inglese lo sa bene. Cresciuto e formatosi durante le fasi finali dello sbriciolamento, il suo risultato, e forse anche il suo intento, è quello di accondiscendere senza infingimenti a uno stato di fruizione della letteratura e dell’arte che deriva appunto da un’educazione, in senso ampio, che naturalmente chiama alla mescolanza e all’intersecarsi dei piani: e lo fa con una rara eleganza di orchestrazione. Tale fedeltà, del resto, non riguarda soltanto un esito stilistico, coinvolgendo ancora la sfera etica di una testimonianza veritiera, non contraffatta.

A questo riguardo è opportuno peraltro rinviare a un altro tipo di mescolanza, stavolta propria all’indole dell’autore: mi riferisco alla convivenza di estrema consapevolezza, teorica e fabbrile, e del candore di chi non sa negarsi di chiedere alla letteratura di invadere l’esistenza, e, se non cambiarla, rifletterla secondo le sue peculiari modalità di trasmissione. Tanti realismi, passati e presenti, pretendono esattamente il contrario: che cioè la letteratura inglobi la percentuale più alta possibile di realtà. È una domanda a cui lo stesso Inglese non si sottrae, ma rimane anche l’altra, che, al di là di ogni facile travaso cronachistico, tenta la porta stretta di una restituzione dei pensieri e dei fatti che sia tanto stilizzata e nuova da essere, per paradosso, autentica, non falsata da un primo grado servile.  L’enorme posta in palio esistenziale – recuperare le ragioni di un amore, le sue dinamiche, le cause della distruzione – è cioè gestita e preservata nella cifra di un’estrema formalizzazione: “in tal modo quello che fu dentro e mio fuoriesce, diventa altro, materia di meditazione, propaggine da esplorare, ma soprattutto forma e ritmo, articolazioni di fasi, consistenza”.

Spettatore di un se stesso che non c’è più, l’autore fissa uno schermo su cui ostinatamente scorrono a ritroso i fotogrammi di quel suo tempo amoroso, per giungere, tra ironia e strazio entrambi affioranti a bagliori, al bambino che sogna di adempiersi nel rapporto con la donna: un sogno che non finirà, anche perché l’inamena evidenza dei giorni, dei nostri giorni, non gli offre quelle alternative di azione di cui pure sarebbe cupido. Mentre compare l’immagine dell’innamoramento primo, con un’Andromeda sconosciuta conosciuta e amata, l’analisi più impegnata riguarda il millimetrico progresso di quella scucitura che quotidianamente separa due persone, al di là, al di sotto, di ogni patto di alleanza. Ogni coppia è una fragile alchimia che scommette sulla durata, e perde: “perché null’altro è l’amore se non questo prolungato malinteso, che simula un paesaggio definitivo, quando invece ogni amore è stagionale, sottoposto all’equilibrio instabile fra risorse oniriche e prove del reale, fra menzogne climatiche e freddi estremi o siccità impreviste”.

Muovendosi “con assoluto arbitrio, con fedeltà disarmante, con audacia di baro”, Inglese disegna un grafico che può risultare di totale negazione. Ma alla denuncia delle contraffazioni e delle modalità stereotipate che inquinano i rapporti più intimi, si contrappone implicitamente la concitata agitazione di una ricerca troppo vitale, troppo accesa negli stessi bioritmi della scrittura per arrestarsi a una risultanza univoca. “Nulla / è stato abbastanza reale/ per fermarsi, per fare / un credibile fondo”: è la conclusione dell’ultima poesia, e del libro. Se nulla è stato abbastanza reale, significa che una realtà c’è, da scovare e riconoscere, da vivere e da scrivere: continuando a non fare sconti né a lei né a se stesso.

Paolo Maccari