Biagio Cepollaro


1. L’ascolto.

La poesia di Giuliano Mesa dà e chiede ascolto. Comincio da qui questa mia lettura di alcuni momenti della sua opera. Da alcune riflessioni intorno all’ascolto che uscirono sulle pagine on line di «Per una critica futura», n. 3, 2007. Da Tre lemmi:

Ascolto. Una delle caratteristiche dell’uomo “occidentale”, opulento e mediatico (e opulento, ricordiamolo, anche nella sua relativa povertà, rispetto alle povertà estreme sofferte dalla maggioranza degli uomini d’oggi) è la logorrea: un “flusso di logos” che sembra ormai refrattario ad ogni astringente (ed anzi: l’internet ha s-frenato anche le inibizioni residue). Che questa logorrea sia la negazione in atto dell’ascolto, è evidente. Ma è anche negazione in atto dell’ascolto interiore, che vuole silenzio. È, non di rado, nevrotica richiesta di attenzione. Di fronte a un logorroico ci si chiede: perché costui non sa ascoltarsi? Perché è incapace di prestare attenzione ai suoi pensieri e pretende in modo così aggressivo un’attenzione altrui che, non potendo essere posta sul dire, essendo quel dire uno sproloquio, viene posta sul dicente? A volte, è come se i logorroici chiedessero: “aiutami a tacere, aiutami a pensare, aiutami a non aver paura della mia mente, della mia vita”.
Per ascoltare, bisogna, prima, imparare ad ascoltarsi, a lasciarsi pensare. Così, forse, si potrà poi ascoltare altri senza sùbito agire difensivamente, opponendosi o sovrapponendosi, polemici o fagocitanti. E’ più difficile di quanto si possa credere.
Sarà l’età che avanza, ma ormai non riesco più ad ascoltare chi parla senza aver prima ascoltato se stesso. Né chi parla senza aver dedicato molto del suo tempo ad ascoltare gli altri, il mondo, nel tempo e nello spazio. Non appena mi accorgo che il parlante, o lo scrivente, vuole soltanto imporre la sua presenza attraverso i suoi “atti di parola”, smetto di ascoltare, poiché da tali parole non potrò imparare nulla, se non a sapere, ancora, che molti, troppi, parlano senza aver da dire null’altro che il loro “ecce ego”.
Ma ascolto con estrema attenzione chi non ha potuto ascoltare, né se stesso né altri né il mondo, perché oppresso da necessità primarie. Cerco di non dimenticare mai che la possibilità di ascoltare, di pensare, di conoscere, è un privilegio di pochi, nel nostro tempo.

Potrebbe cominciare da questa citazione relativa all’ascolto: questa posizione di Giuliano non è solo un giudizio sul costume attuale, ma, considerata in controluce, è già una dichiarazione di poetica. La dimensione dell’ascolto non è solo quella “akusmatica”, a lui tanto cara, ma è quella che propriamente viene riservata alla musica. Quindi sostanza etica dell’ascolto, sostanza gnoseologica dell’ascolto (non vi può essere conoscenza dialogica senza), sostanza estetica: la poesia considerata come parola sullo sfondo della non parola e del silenzio. Ma sostanza anche politica dell’ascolto: la maggioranza degli uomini non è stata messa in grado di ascoltare per le urgenze elementari primarie. L’ascolto è ancora una possibilità, nonostante i logorroici che non stanno mai zitti e che scrivono ovunque e di ogni cosa, bulimici e obesi di parole. Giuliano ricorda che per ascoltarsi bisogna lasciarsi pensare. Lasciarsi pensare è esattamente quanto avviene nella nascita della poesia che è prima di ogni altra cosa auto-ascolto. L’ascolto altrui viene dopo: il primo destinatario-lettore è l’autore stesso. Quindi occorre una disciplina mentale perché si possa essere in grado di ascoltare la musica del lasciarsi pensare. Gli intervalli, le pause, i silenzi, le armonie e le disarmonie: la poesia comincia a farsi. La parola che è solo atto di parola si risolve sempre nell’affermazione egoica e identitaria. Quest’affermazione che ripete tautologicamente se stessa è l’autoreferenzialità del vuoto: in quell’ecce ego non è accaduto nulla perché non c’è nulla. L’impossibilità dell’esperienza qui non viene neanche immaginata: si crede al contrario e si parla, si scrive. Quell’io vuoto è svuotato: per questo diventa bulimico, perché dentro è vuoto ed è letteralmente insaziabile. Ascoltare se stesso come un altro, ascoltare davvero gli altri per quello che dicono, semplicemente. Si tratta apparentemente di premesse di metodo, invece siamo già entrati nel vivo di una poetica. Perché di una poesia si ascolta ciò che viene detto esattamente come si ascolta ciò che non viene detto. Anzi, si ascolta ciò che dicendo non viene detto e non dicendo viene invece espresso. È dentro questo groviglio di suono e silenzio che occorrerà farsi strada: saranno le figure della reticenza e del deittico, sarà il non svelare e nello stesso tempo chiamare con intensità all’ascolto, saranno i resti consunti di discorsi già fatti non più intuibili ormai, come non lo sono più talvolta antichi tracciati stradali seminterrati, perché sulla superficie del testo è evidente l’abrasione, che non è silenzio, ma la ferita e il pathos. Al di sotto di questa abrasione ci sono parole divenute parti del discorso, resti, frammenti, spezzoni.
Dunque la poesia di Mesa non è poesia dell’io. Eppure il Soggetto poetante non è per questo debole: a lui si deve la conoscenza che poi viene prodotta, fosse pure conoscenza dello scarto, del detrito, di ciò che resta. Tale conoscenza ha come oggetto il mondo nella misura in cui è stato filtrato dalla parola. Perché nulla è più lontano da questa poesia dell’idea che mondo e lingua poetica possano coincidere. L’assurdità delle poetiche neoromantiche coeve agli esordi della sua poesia doveva emergere alla luce di uno strano materialismo non finalistico né ottimistico ma piuttosto utopico e decisamente eretico. Non c’era nessuna pretesa raziocinante illusione antropologica sulla positività dell’uomo. Non solo il tema del campo di concentramento, non solo gli effetti della globalizzazione e prima della divisione del mondo in aree di sviluppo, per usare un eufemismo: a fronte di una lucidità e anche tecnica ricognizione delle ragioni economiche del dolore collettivo per Mesa non si è mai prospettata l’illusione di qualche palingenesi. Per questo, per questa sua aderenza alle cose, non si è lasciato coinvolgere né dall’ideologia politica né da quella letteraria. L’amore per la poesia è stato sempre compensato dal realismo quotidiano che parla e mostra il disagio. L’impotenza della poesia e del pensiero critico non sono mai passati in secondo piano, così come la necessità della loro esistenza.


2. Un occhio all’inizio, a Schedario 1973-1977

Come entrare nella preistoria di una poesia matura, nella sua giovinezza, nel suo acerbo in cui ci sono tutti, ma proprio tutti gli elementi che formeranno col tempo la spirale. La spirale è il cerchio in movimento, è il moto del cerchio, è il massimo della sua possibilità di mutare divenendo sempre più se stesso, senza mai chiudersi, però. Le movenze o lo sguardo giovanile s’intuiscono talvolta nelle pieghe di un volto adulto: le cose andranno per quella strada e non per un’altra. Non è decisione né scelta. È così.
Ci entra già, nel testo, mosso dall’erotismo, mescolato all’aggressività che si scarica sui fonemi. Ma la lingua della poesia è già il luogo in cui tutto dovrà accadere in quel modo rovesciato dell’accadere che fa a gara con la realtà delle cose (con la cosificazione delle cose). È già in atto il lavoro di approntamento di una scrittura che si presenta a lato e a margine dell’evento solo per sostituirsi ad esso nell’irriconoscibile, perché il senso fuori è quello cosificato e cosificabile, l’ordinario. Qui la scrittura rifà il verso al mondo e ne costruisce un altro, dentro: il testo dentro al mondo come suo vissuto non organizzabile in un riassunto.
Espedienti, modi comuni, appartenenze… Le ricerche degli anni Settanta, tratti di poesia “intraverbale”, di insistenza sul singolo fonema, collocazione grafica sulla pagina, utilizzo dei bianchi (dei vuoti), ma mai disgiungendo questa violenza sulle “buone apparenze” della lingua da un’intenzione semantica propria, tanto aderente alla cosa dell’esperienza, quanto già disposta a diventare esperienza essa stessa. Già nel suo farsi l’esperienza a cui si allude perde i suoi contorni, la parola è usata per “scontornare” senza però lasciare la scena originaria, senza lasciare però il campo. Ed il campo aleggia ormai ridotto a fantasma, come un alone, un residuo di sapore, uno sfondo.
Giovanile è l’estremo, il colore netto, il movimento senza sfumature, la facile perdita di grazia, la durezza astratta, il voler impressionare per eccesso autolesionista… Così fa sacrificio, di parole, di lettere, così comincia già lo stilema della reticenza, la reticenza come fondamento: vien detto qualcosa che vale solo sulla base del non detto. E la funzione fàtica, anche, fa il suo ingresso e calore, e fa e provoca e chiede tenerezza più che comprensione, è sostituzione di logos (l’abbraccio invece del discorso, il non-detto al centro che così resta tale).
Il discorso diretto, franto, basso, piuttosto tendente alla domanda, all’esortazione, piuttosto una modalità del respiro, quel respiro che presiede alla composizione e che finalmente viene allo scoperto, appare. Sembrano mani che si muovono da sole, ombre consistenti, prive di contorni ma agenti, a loro modo concrete. Un modo, una declinazione della concretezza, concretezza per cancellazione, per privazione.
Ma non-detto è anche ciò che organizza il testo come istanza misurante. È l’arte della scrittura severa e precisa quanto più si applica a ciò che contorni non ha. È anzi ancor più severa quanto più s’incarica di rappresentare la dimensione della responsabilità, del ri-spondere di ogni atto, virgola, spazio bianco… Etica dello scrittore e invenzione di una sua razionalità tanto rigorosa quanto arbitraria, tanto precisa quanto concreta per privazione.


3. Prima di Quattro quaderni

Incontrai per la prima volta Giuliano nell’ambito della redazione della rivista «Symbola» che veniva realizzata a Roma nel 1983. Dunque il nostro sodalizio comincia all’altezza di ciò che sarebbe diventato Poesie per un romanzo d’avventura (1978-1985). Le riunioni avvenivano nella casa di Ostia di Giulio Leoni che si ostinava a voler pagare lui da solo i numeri della rivista. Giuliano aveva il compito ulteriore di fabbricare a mano la rivista, tagliando e incollando. All’epoca abitava lì. Di notte però spariva e tornava il mattino dopo, mentre noi, nei sacchi a pelo ci svegliavamo. In seguito ho saputo che questa era usanza già di «Tam Tam» e di «Spatola al Mulino di Bazzano». La poesia era dedizione assoluta per tutti noi. E la frase che ricorreva con insistenza nelle nostre riunioni era quella che definiva la poesia come una forma di conoscenza. Non sapevamo se esisteva davvero uno statuto epistemologico per la poesia, ma dentro di noi sapevamo che la poesia non era un ornamento o una semplice consolazione.
Mi occuperò qui soprattutto dei più tardi Quattro quaderni 1995-1998 ma non posso non riandare a quell’inizio che per me resta Poesie per un romanzo d’avventura. La prima cosa che vorrei sottolineare è il processo di rarefazione materiale che accompagna progressivamente l’intera opera: da Schedario ai lavori più recenti, l’impressione che si ha è che vengano utilizzate sempre meno parole, talvolta l’utilizzo si concentra su segni come le parentesi, come se si trattasse di segni per partitura, oppure, meglio, di segnaletiche di scavi, di terra asportata e rimossa, di vuoti e mancanze. Via via sembra che le parole espresse e scritte, stampate infine sulla carta stiano lì a segnalare un testo precedente, ora parzialmente o del tutto abraso e quasi illeggibile. Si possono leggere appunto solo questi segni-segnali. Il segnale come spia che annuncia che qualcosa è avvenuto. Detto ciò si è bene introdotti all’insistenza che i titoli mostrano per presentare i versi come racconti, come narrazioni, come romanzi. Vi sono anche personaggi e una tendenza alla teatralizzazione. D’altra parte uno dei libri più importanti s’intitola proprio I loro scritti 1985-1995 che precede immediatamente i Quattro quaderni. Gli scritti non appartengono all’io lirico, le prole sono non proprie, le parole sono di altri. Non parole per gli altri ma parole degli altri. Qui non c’è un destinatario sociale che provvisto di parola si vede raddoppiare il suo linguaggio grazie alla lingua poetica. La lingua poetica non raddoppia in realtà, corre in soccorso, piuttosto. Laddove la lingua manca, là arriva la poesia. Quindi non c’è ideologizzazione: non si scrive per chi già produce di sé una rappresentazione ma si scrive per chi questa rappresentazione non può farla. Ma prima di giungere a questa espropriazione della parola de I loro scritti occorre soffermarsi sulle narrazioni impossibili che costellano Poesie per un romanzo d’avventura. Questo libro si articola nelle seguenti sezioni: Prima narrazione, Cori I, Durante i mesi che seguirono, Nina che avvince, Annie che ritorna, Cori II, Seconda narrazione. Eppure non s’intravvede né un’azione né una scena né un contesto riconoscibile in cui un’azione e una scena siano possibili. Le parole sorgono richiamate le une dalle altre dalla pura similarità dei suoni o dal consumarsi dell’emissione del respiro, da una misura che si è colmata, dal ritmo. A fronte dell’indicazione di personaggi e di condizioni temporali nessun dato concreto può rimandarci alla storia a cui sin dall’inizio si è fatto cenno. Si fa narrazione di ciò che non è narrabile. Si dispone lungo una cornice temporale ciò che accade in un istante e in tutta l’ambiguità di un istante. E più i titoli insistono sulla funzione denotativa più ci troviamo di fronte a delle connotazioni. Si consideri in Loro scritti la sezione Didascalie I, n. 2, p. 150:

e fa che si resti percossi,
supini ognora,
freddi, foschi.
In punta di lingua la radice,
succulenta, la corteccia salubre del salice,
la mollica sull’alveolo enfiato,
immemori, radiosi

Ma che sia il significante a dettar legge proprio laddove ci aspettava il denotativo didascalico ha quasi del clamoroso. È evidente che la definizione dell’accadere o è impossibile o è soltanto l’infinito trascolorare del vissuto di parole, del desiderio di parola, proprio quella piena che è appunto mancante e perciò ossessivamente perseguita in pseudo-descrizioni. l’evidente iterazione delle assonanze e delle paronomasie prepara un’inaspettata apertura affidata alle vocali finali che chiudono appunto luminosamente. Ed è strano che la condizione obliosa e felice, felice proprio perché immemore si presenti solo alla fine, quando all’inizio vi sono sia “percossi” sia “foschi” e “freddi”, termini negativi, passivi e legati ad una condizione di subalternità.
Appena più sotto, ad un certo punto, improvvisamente si legge: «e poi la tenia, la nenia, / nel muoversi delle cose verso le cose, la cicatrice bianca». Qui la vicinanza sonora tra tenia e nenia conferma la relazione ossimorica che è alla base di questa impossibile narrazione. La poesia (la nenia), il dire, il dire che consola e che guarisce, che unisce, il dire che fa essere in realtà è imparentato più di quanto si voglia ammettere col suo contrario, con la tenia, con il pensiero – se pure è un pensiero – parassitario che mangia dall’interno l’organismo vivo e lo consuma, gli impedisce di digerire le esperienze e di farne metabolismo costruttivo. Per questa opposizione l’unica mediazione che emerge è quella della cicatrice bianca: una zona che pur non essendo malata non è neanche la pelle restaurata e ripristinata. Il colore bianco della cicatrice appare come una tregua, piuttosto, una pausa, un silenzio.


4. Su Quattro quaderni

Il primo quaderno è come fermo, è come se venisse fuori una breve vibrazione, micromovimenti, attenzione tesissima su di un punto, sulla forza di un rivolgersi. È tutto un ascoltare, dal di dentro della vita, un presagio di dove la vita andrà o è già andata: forma di conoscenza che non identifica oggetti anche se li convoca o li invoca né classifica né logicizza: conoscenza qui sta per un esistere puro, prima e dopo le cose o, meglio, dentro il prima e dentro il dopo: è null’altro che una tensione temporale che anima la speranza degli uomini, il loro tentativo di orientarsi al di là dei nomi e delle topologie. Questa tensione è tanto precisa quanto aleatoria, formale, strutturale, “esistenziale”.
Ecco perché rarissimi sono i dati biografici, esistentivi… Sono brevissime cellule tematiche, pochissime note dove contano le microvariazioni, il sincopato, il troncato di netto, svolgimenti minimali, cluster… Le cose cambiano, anche per quest’aspetto, nel secondo quaderno: sin dall’inizio si avverte più luce e più spazialità, si avverte un’altra aria fino alla paradossale reinterpretazione dell’arietta, della canzonetta.
Confrontando la prima poesia del Primo quaderno con la prima poesia del Secondo quaderno si nota che protagonista nel primo caso è il suono, la musica, il ritmo, nel secondo caso la luce e solo dopo, alla fine, il suono. c’è stata come una ruminazione che ha preceduto la maggiore apertura del Secondo quaderno, una sorta di tragica ironia espressa con leggerezza.
La parola poetica in 1-s-passatempi (pag. 251) “rifà il verso” e gioca in un calembour la sua relazione “chiasmatica” con le cose, con il dire e con la ripetizione: «che se ripeti sai, che sai ripetere». Rifarsi il verso è conoscere attraverso la ripetizione e saperlo fare. Ciò che si può “avere”, possedere è «quasi nulla ma quello come per sempre». E questo «dopo dire e ascoltare» quando la ripetizione rischia la noia o l’assordamento. In chiusa, tra parentesi, degli oggetti desolati e con essi la scansione temporale che mescola il prima e il poi in «un tutto che si tiene»: «(un tacco schiodato, un pane scotto, una siringa, / un prima, un dopo, un tutto che si tiene)». Ma cosa tiene il tutto? In gioco è proprio la funzione conoscitiva della poesia e la sua volontà veritativa. E su di questa pende come un macigno il detto dell’Ecclesiaste quando «[invece non c’è parola o suono / che si salvi dalla vanità, è tutto / un fumo di varianti, di ripetizioni]».
Quella volontà di verità deve fare i conti, non solo con il relativismo e l’approssimazione ma anche con la sostanziale retoricità del detto poetico preso tra variazione e ripetizione di un identico nucleo germinativo, dell’identica ansia fagocitante. Al di là dell’illusione di cogliere la verità c’è solo la sicurezza della precarietà fisica del vivere e della sua connaturata impermanenza. Nel Primo quaderno questa ricerca intorno alla verità è serrata, nel Secondo quaderno gli stessi temi tornano sotto una prospettiva ironica e dentro una cornice prevalentemente di luce, di opposizione luce/buio, in una generale diradazione lessicale. Qui il ridire diventa riluce: 1, v 1 (p. 271):

luci luci…
come riluce
ciò che ha una luce, dentro,
che si spegne

Luce-buio, parola-silenzio e tempo in mezzo. Il suono si mette a giocare proprio quando si condenseranno da questa leggerezza le sentenze più gravi, quando il canticchiare diventa voce grave e solenne, così, improvvisamente. A pag. 271: «va bene, tutto questo buio – / dopo sarà soltanto un po’ più scuro». E a pag. 273, come in un ossimoro generalizzato e senza vie di uscite: «come si oscurerà / anche quel giorno / che arriva nero di tutta la sua luce / (non c’è che quest’andarsene / da dire)». Qui la precarietà e l’impermanenza vengono colte nella paradossalità del loro essere, che è appunto lo svanire. Ed è quest’integrale adesione a ciò che passa che fa che quella vanità possa forse risultare non vana.
Infatti nel Quarto quaderno vi sarà anche graficamente espresso lo status della scrittura e la sua importanza effettuale, la sua capacità di trasformare le cose, anzi la sua incapacità o impossibilità.
Val la pena di richiamare qui il testo leggibile a pag. 320:

(scritto, nulla

che non sia polvere, che vola, se ne va –
che non sia luce, che brilla, e dopo è buio
– e dopo è luce e dopo è buio, e dopo e dopo

(non scritto, nulla

che non sia polvere, che vola, se ne va –
che non sia luce, che brilla, e dopo è buio
– e dopo è luce e dopo è buio, e dopo e dopo)

Non cambia nulla l’aver scritto o non aver scritto. Qui la desertificazione è anche massima riduzione nella scelta lessicale. Sono spariti gli oggetti, i frammenti di circostanza, le poche indicazioni narrative, le allusioni ad un paesaggio, sono spariti anche i resti e gli scarti, i detriti, il deittico. In questo testo vi è come una sorta di vento cosmico che tira forte e uguale e spazza un mondo che si ripete tornando identico nella radicale inconsistenza o vanità (o anche splendore). Si tratta di un vortice che si attiva per polarità: polvere/luce, luce/buio, polvere/vola, luce/buio. S’intrecciano le coppie ruotando e nella rotazione la vanità del dire ma anche la vanità del non dire si esplicitano, senza neanche drammatizzazione o reazione o scandalo e rivolta: c’è una presa d’atto, una ricognizione del dolore.
Prima della canzone stretta mi piace tanto quella che comincia con «se prendi (prendiamo insieme una misura, da qui)». È quella dell’orientamento, dentro la vita, in un durante pieno e riassuntivo. Formalmente è perfetta, equilibrata da un respiro che dura quanto i versi, organizzata con simmetria e leggerezza. Qui il gioco delle parole sono proprio le parole del gioco della vita. La forma, il suo rigore e il tempo che passa. L’ordine del senso e «meglio di tutto è l’esserci». Distici distolti: è forse una forma di nuova classicità. C’è il movimento di chi ha messo d’accordo poesia e vita, di chi è emerso con un detto nel bel mezzo della storia, di chi sa, di chi dice «basta questo / questo dire», di chi dice «che non c’è nulla / se non qui». La chiusa è sorprendentemente teatrale quasi Metastasio, Lorenzo. Ironia senza sarcasmo, rappacificata.
E dunque il Terzo quaderno. Eraclito e Parmenide. Sì, alla fine, è quasi esplicito il riferimento al divenire e anche alla cosmologia: il fuoco. E il logos. E dunque la fissità da cui si guarda il movimento che non può essere parmenidea. Quella fissità è esattamente il fantasma identitario che se crea e consolida uno stile di scrittura, come fantasma autoriale, crea e consolida (e sfida) anche uno stile di vita, come fantasma biografico. Il logos, infatti, non è interno al flusso del dire/fare, delle parole/cose, ma, come senso, ne dovrebbe scaturire, altrove, sulla pagina, appunto. E così è ridotta la pagina ad un tracciato di apparizioni e sparizioni, una lastra dove resta impressionato il passaggio, alla velocità della luce, delle particelle subatomiche. La vita accelera, la pagina raccoglie le tracce degli annichilimenti, perché di questo si tratta, nel fondo della materia, di annichilimenti e di esistenze virtuali, a guardare da vicino, il molto piccolo. Una corsa verso il nulla di particelle che non hanno neanche lo statuto certo di cose ma solo un’esistenza probabilistica e inafferrabile.
Le parole che dicono ciò che non si può dire. Andare, restare. Tempo che va e tempo che resta. Tempo del tardi, del mentre e del poi. Sparizioni e non-dimenticanze. Un luogo dove stare, che resta, che sarà. E poi il corpo, le nocche, la mano vista davanti agli occhi, ossificazione e poi ancora labbra turgide, il corpo che fa il pieno, il dolore, la stanchezza, il corpo che fa caldo. Perdere-trattenere, cosa che si trattiene, cosa è il questo? Le parentesi quadre come un terzo livello del silenzio, più fondo e severo, più saggio, più amaro. Tra il nulla e il dire, nulla che resti da ridire.
Un modo per assediare il senso del tempo o, meglio, per costringere il tempo a tirar fuori un senso, un racconto, un detto, una cosa. Ma nella sua unicità. Il senso di questo qui e ora. Ma cosa risponde se non l’annichilimento, se non la conseguente tentazione del monumento? La poesia può rispondere alla domanda cosa è questo? Può rispondere alla domanda cosa accade? Se essa stessa è un accadere non ha la possibilità di porsi al di là degli altri “accadere”, se non per attribuzione di valore che viene dall’esterno (le parole della poesia sono conoscitive in modo proprio).
E se non avessero la possibilità di conoscere in quanto metadiscorso, se fossero condannate a splendere e a oscurarsi come ogni altro povero gesto umano? Il dolore che si concreta e l’alternativa (quiete/oblio; divampare/distruggere). Il fuoco del divenire e della cosmogonia, il fuoco del cominciare e del finire, dell’essere questo, tutto in un istante, finalmente. Ma è quando il dolore si concreta sulla pagina, quando è davvero Eraclito e non Parmenide, che la poesia può toccare di più.
Come nel caso della 12-t4, dell’«infinità cattiva / anche di vessazioni, inutili, / inflitte decine d’anni d’ambagi, / tutte del tutto inutili / se non a far di conto…». Come nel caso della 13-v5, della quiete e del divampare, con la chiusa stupenda: «(è meglio, tutto è meglio del non più / senza che mai sia stato)». È chiusa da tragico greco, da Eschilo o Sofocle, è il dionisiaco che rinuncia a nominare perché sa che il suo compito è solo accettare fino in fondo perché qualcosa, sparendo, sia.
La pagina raccoglie i deboli ma intensissimi tracciati dei passaggi virtuali. Perfino la carne martoriata non potrà esser detta, ricordata, testimoniata, perfino lei sarà uno dei tracciati, del folle annichilimento. Il fatto è che questo vuoto che fa da padrone nella microfisica, lo fa, in realtà, anche nella macrofisica. La poesia serve allora a portare il vuoto e il nulla dova sembra esserci un tutto pieno? Ma questo ha a che fare con una forma di meditazione (anche in senso medievale e umanistico) non di processo che riguarda il senso, il discorso. E allora Parmenide è fuori luogo, e anche la sua fissità, e anche il fantasma identitario dell’autore e della biografia. Se deve esser vero Eraclito o Eschilo, non c’è nulla da trattenere.

Sul Quarto quaderno.

È, questa, poesia d’amore, nel modo più pronunciato, fino alla reinterpretazione del genere. Amore, morte, senso del tempo, destino, corpo, materia e vuoto. Poesia d’amore dove Lucrezio conta più per il vuoto che per le infinite concrezioni degli atomi, conta per quel che resta, sugli argini dei fossati, più che per gli astri, lontani. Anche i colori, nominati ad uno ad uno, fino al nero fanno, sono il ciclo del tempo. E dai colori, che specificano il ciclo di luce e buio, vi è la potentissima immagine (non gotica, ma un Mantegna fatto passare attraverso un barocco sensuale), della mano che nel sonno accarezza il proprio corpo. Mi pare dominante il senso del ciclo: caldo-freddo, luce-buio e, sullo sfondo la non-ragione, il caso, la speranza che talvolta chiude: «(una tua mano, nel sonno, ti stava accarezzando – / non moriremo più)»; «(chiudi così, per chiudere – domani farà caldo» o avvia alla chiusa «(e questo è molto, / a farsene una ragione)», mentre Eraclito vince: «(che ciò che muore muove, / che ciò che è fermo sta)» ma non abbastanza da non tradire la tentazione del monumento a memoria degli amanti, Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta tra stenti, giovinezze troncate, tragici equivoci, bestialità: «(non ricordatevi di noi, / non fate caso)» e puntualmente, a compensare il lasciarsi andare: «(il caso, poi, fa tutte le sue cose, come sempre)». Poesia d’amore anche perché il Quarto quaderno riconcilia: è integrazione, accettazione, destino. E il fatto è che il futuro non è scritto, è inaspettato per definizione. Bisogna solo lasciarlo accadere non intralciandolo con artificiali progetti, proponimenti, attribuzioni di senso. Ecco perché è buona la poesia: anch’essa è ai margini del fossato travolta ma non arresa, dentro e fuori, luce e buio abbastanza per avvertire i ritorni e le vere sparizioni. La poesia forse più bella che raccoglie i temi e li incarna in una situazione (con procedimento inverso a quello qui solito, di scorporazione, il tracciato appena del passaggio della particella virtuale, il resto) è quella dove questo divenire assume nome e cognome e quasi un volto, si fa scena di superficie, al bar, al telefono, nell’accelerazione che non è della mente ma degli oggetti che assediano la vita quando si riemerge. Qui vi sono due nuclei fondamentali di senso, distillati di senso, permessi, concessi dall’intero percorso gestuale, fàtico, deiettivo:

non siamo nati ieri imparando,
abbiamo imparato a trattenere
poiché tutto muta e muterà: tatà

e poi la chiusa che può permettersi finalmente la semplicità del detto vero:

domani moriremo, amore mio, avremo
ancora caldo e sete
e freddo e fame e tutto il resto: resta


5. La sorda sirena

 La poesia che è in epigrafe e che introduce a Quattro quaderni è forse una delle poesie più belle di Giuliano:

questa sorda sirena,
e finalmente il suono della fine

(è già finita,
non resta che finire)

questa sera serena,
che mente fino all’ultimo sospiro

(è già spirata,
basta respirarla)

questa selva silente,
che finalmente è solo una maceria

(che non riguarda,
se non si guarda più)

Questa poesia lascia scivolare i significati grazie al ponte gettato dai significanti. E così i significati passano da una parte all’altra come su un palcoscenico teatrale, da dietro le quinte. I significati sono sollecitati a sorgere come improvvise illuminazioni, come miracolosi espedienti dell’assonanza. La sorda sirena si pone sin dall’inizio su di un piano di esplicita ambiguità (anche morale). È una sirena che suona ma si sottrae all’ascolto. È un suono che non brilla, che non dice. Una sirena insensibile, indifferente, muta. Può essere la sirena della fabbrica come la sirena omerica. La fine interviene in entrambi i casi: può essere la fine del turno di lavoro come la fine per annegamento. Anche qui come la tenia/nenia: la poesia (la sirena) porta alla fine rovesciandosi nella tenia. Solo che ora sul palcoscenico del significante sfila la sera. È lei che equivale a sirena. E questa sera è serena. Appare per assonanza, quasi per natura, serena. Eppure non è così: questa sera, come prima la sirena, può rovesciarsi nel suo opposto: in una menzogna. La serenità non può che essere menzogna. Il tema della verità e della menzogna viene trattato dialetticamente da Mesa che legge rigorosamente Adorno.
Sempre sul numero 3 di «Per una critica futura», a proposito di verità/menzogna:

Verità etica. Ne ho già scritto (rimando a Frasi dal finimondo, nel volume Ákusma, e a Dire il vero, in Scrivere sul fronte occidentale). “Verità etica” è un sintagma forse un po’ troppo austero, o addirittura pomposo. Si potrebbe anche dire: “sincerità”. L’ostacolo principale al dialogo non è la diversità di opinioni ma il “comportamento” (l’etica, appunto). Non può esserci dialogo con chi parla sempre e soltanto avendo in mente certi suoi fini (secondi, che poi sono primi), che agisce sempre secondo tattiche e strategie, opportunità e convenienze – mentendo, sempre. Sembra che tutti parlino con tutti sapendo, tutti, di avere dei “secondi fini” (che sono i primi). Alla “spudoratezza” del dire chiaramente quale sia il fine vero, ancora non si arriva (e ci si era quasi arrivati, al tempo della prima guerra del Golfo Persico). Gli scopi e i “valori” dichiarati devono ancora essere: libertà, giustizia, democrazia, verità, onestà, solidarietà ecc.. Ciò che accade nell’àmbito dei poteri economici e politici e mediatici, accade anche in quello della cultura, e in quello della poesia: sempre più spesso, con sempre maggiore spudoratezza nel mentire.

Questa è una denuncia che finisce con il delegittimare qualsiasi conversazione letteraria che non sia sinceramente interessata alla verità. Ma la verità che coincide con sincerità è il risultato di un lungo apprendistato. Tale apprendistato ha a che fare con la riduzione dell’io.
I versi: «questa sera serena / che mente fino all’ultimo sospiro» rimandano proprio a questa problematica. Esiste un apprendimento della sincerità così come esiste una menzogna sistematica, strutturale, propria dell’essere in società. Ma la sera serena che mente è la nenia, è la poesia, è la sirena. E qui la vita e la morte s’incontrano. Gli opposti cessano di scambiarsi le parti e puntano diretti all’identità: la sera spirata è respirata: tra respiro che è la vita e lo spirare che è la morte vi è identità. Ma poi la sirena che era diventata la sera ora diventa la selva. Selva infernale ma anche la vita, l’inferno della vita, l’oscurità della vita. La selva non è sorda, è invece silente. E si rivela non come costruzione ma come maceria. Il mondo che doveva perderci in realtà è solo una maceria che perde se stessa. Ma la vera liberazione è nella scoperta che le cose esistono nella misura in cui sono intenzionate. Se non si considera più qualcosa, quella cosa non ci riguarda più. La selva del mondo, l’imperscrutabile dell’esperienza, la contraddizione che emerge nel rapporto con gli altri, la selva anche dei desideri, delle pulsioni, dei sogni individuali e collettivi: tutto questo ad un certo punto perde il suo potere magico e non riesce più a catturare, imprigionare, ad inchiodare ad un ruolo e ad una posizione. Uno esce fuori dal gioco e uscendo vede quella stessa selva come una maceria e si accorge che non attendeva che questo. Questa è una liberazione la fine della selva, il diventare maceria della selva. Era il nostro guardare, la nostra intenzione. Era la nostra affezione il nostro conoscere. Ma basta che tra io e mondo, uno dei due si sottragga, metta fine alla partita perché quella che era una partita appaia come tale. Un gioco di rimandi, di specchi e di reciprocità. Un dialogo che s’interrompe è un non guardare più ciò che non ci riguarderà più, nello stesso istante.


6. Le note che diventano poesia

Le note ai Quattro quartetti che compaiono a pag. 328 di Poesie 1973-2008 non sono le solite note. Si tratta di veri e propri testi poetici. C’è da chiedersi perché il territorio neutro dell’informazione sulle circostanze della composizione, sia stato invaso dalla connotazione. Si legge:

un arbitrio, una hybris, una volontà, nefasta, di monumento
un’epidermide artificiale su un corpo scorticato
(un argine al vaniloquio, un nulla che protegge un altro nulla)
un altro passo, ancora, un altro passare
(nessuna preghiera, nessun perdono: un’imprecazione, una condanna)
(un niente che cerca di annientarsi)
lo schema dei quartetti: che senso può avere, insieme alle parole soprastanti?
(non sovrastanti: non c’è più nulla, nemmeno, che sovrasti… è un gioco d’agonia: un agone…)

Sembra che chi parla lo faccia da una distanza ulteriore rispetto all’opera, distanza che è disidentificazione ma anche disvelamento del senso dell’opera. Solo che questo denudamento avviene contemporaneamente ad un nulla che si assume come interno ed esterno, come onnipresente, anzi come onniassente… La questione centrale è il monumento: l’esasperazione della consistenza del significato dell’opera proprio quando tale significato pare essere di fatto perduto, oggettivamente, socialmente, storicamente. Un oggetto nato per fare storia si trova nell’impossibilità di svolgere il suo lavoro: la storia come persuasiva narrazione dotata di senso sembra annegare insieme a tutto il resto nullificante. La realtà non è la storia: la realtà è il corpo scorticato intorno a cui non si può ricostruire una pelle credibile. Sembra aver operato il tempo grazie ad una forza di abrasione, i motivi sono stati letteralmente abrasi, semicancellati dalla superficie delle intenzioni e le stesse intenzioni iniziali ora diventano irriconoscibili. Ma la percezione del nulla (della vanità, impermanenza, vacuità) è relativa sia al soggetto che all’oggetto. E in mezzo a questi due nulla (pare un’eco pascoliana) c’è una protezione, una volontà di protezione. La dimensione estetica quando insiste sulla sua strutturazione formale, quando si fa gabbia e griglia, quando si fa serie, diventa un argine rispetto al caos e alla follia. Un argine al vaniloquio, alla parola vana, al vaneggiare, al nulla nelle e delle parole. La volontà di monumento è anche volontà di arginare ed in questo c’è protezione. Inutile perché un nulla che protegge un altro nulla sortisce un effetto nullo. E poi il passaggio s riduce ad un passo che è destinato a fissarsi nel suo venire meno, nel suo passare, sparire. In queste note c’è una lotta che si rovescia in agonia: tra agone e agonia s’insinua il nullificante rifiuto di una lettura eroica o eroicizzante della condizione in cui il corpo risulta scorticato. Nessun riscatto artificiale per esso: adesione massima a ciò che è. Dunque lo sconfinamento del poetico e della connotazione nel territorio degli apparati e della informazione può significare proprio questo nulla che si è fatto spazio ed ha invaso e distrutto le distinzioni. Lo sconfinamento del poetico va di pari passo con la nientificazione che registra l’assenza di gerarchie, un sopra, un sotto, un prima e un dopo. È il venir meno di ogni argine che fa venir meno anche la distinzione tra testo e apparato. In questo caso a straripare è il poetico come postura del dire che non media più con il suo contrario, che diventa totalmente padrone del campo. Solo che questa è magra conquista: il campo è un campo di battaglia, un campo dopo la battaglia.

 

Biagio Cepollaro 

[in “Atelier. Trimestrale di poesia critica letteratura”, n. 61, anno XVI, marzo 2011, pp. 60-71]