Nota critica dal pieghevole dell’installazione – Roma, 20 settembre / 3 ottobre 2013*
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Gian Maria Nerli

 

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La prima suggestione di cui questa installazione, è il caso di dire, lascia traccia nello spettatore è un vago desiderio, un’immediata proiezione di sé nel futuro, un improvviso estraniante interrogativo: cosa lascerò, io, cosa lascerà il mio mondo, la mia biosfera, all’icnologo del futuro, a colui che studia e studierà le tracce del mio passaggio? Ma tant’è, a dare retta a Benjamin, la virtù dell’arte «è generare esigenze che non è in grado di soddisfare», così lo spettatore torna rapido al proprio presente e alle tracce che altro o altri hanno lasciato al suo sguardo e al suo studio. Senza averlo immaginato è lui l’icnologo a cui allude questo audace esperimento tra linguaggi difformi che si incontrano in un unico mutevole discorso, è lui l’icnologo a cui è chiesto di seguire le tracce che scrittura, fotografia, incisione tridimensionale vanno componendo tra queste mura già piene di sedimenti, di lasciti. Tracce che per l’icnologo-spettatore si rivelano subito anche segni, immagini (quasi giocasse con gli etimi, icnologo, iconologo, e da ichnos, traccia, passasse a eikon, icona, immagine), segni dentro cui decifrare ciò a cui la traccia accenna o ciò che la traccia cela. Sì, perché la traccia, in questo caso, è la traccia di pensiero che la scrittura e le immagini evocano al loro accadere, ovvero, scoprendone il rovescio, il segno visibile di un pensiero che non ha trovato modo di lasciare traccia se non sedimentandosi tra gli infiniti riflessi di questi due linguaggi ambigui e accoglienti. Nella scrittura del resto segno e traccia tendono inevitabilmente a coincidere, e per quanti sforzi si possano immaginare les mots et les choses difficilmente potranno sovrapporsi; nella fotografia, non c’è bisogno di ricordarlo, ogni traccia, ogni impressione della luce sulla carta o sulla pellicola, ogni sedimento materiale che consente la magia della chimica, partecipa alla battaglia per essere trasformato in segno, in elemento codificato di uno sguardo, di una cultura. Una battaglia dove traccia e segno si oppongono e si sovrappongono, archeologia e discorso si contrastano, si scambiano, a volte si compenetrano. E proprio qui, nel cuore di questa battaglia, si posiziona Icnologia, mettendo alla prova i limiti e gli statuti dei due linguaggi: alla scrittura chiedendo di scivolare verso l’icasticità dell’immagine (anche sonora), o dell’icona/traccia scolpita dalle parole, alla fotografia chiedendo di farsi espressione luminosa della realtà organica e poi minerale del foglio di carta che della scrittura racchiude le tracce.

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L’icnologo-spettatore avrà allora bisogno di sapere che l’installazione si compone di tre momenti, ovvero di tre dispositivi, che rimandano incessantemente l’un l’altro senza gerarchie temporali: un dispositivo testuale, dove si sfogliano le parole/icona di Giulio Marzaioli, un dispositivo fotografico dove si osservano le tracce materiali di quelle stesse parole, le immagini di Pietro D’Agostino, un dispositivo ibrido, dove le stesse tracce con il laser sono incise a tre dimensioni all’interno di un cristallo. Eppure in questo discorso così serrato tanto la scrittura che la fotografia attivano strategie di senso, logiche di funzionamento distinte. La scrittura si organizza in un vero e proprio dispositivo testuale, dove le parole al termine di un processo serrato di sottrazione, non solo assumono significato iconico in quanto traccia d’inchiostro sul foglio, ma ricevono unità, abolita ogni possibilità di sintassi, dal passaggio tanto spaziale che temporale da un supporto all’altro, da un foglio all’altro: è nella closure, nello spostamento da un foglio all’altro, nello sfogliare dello spettatore che le parole risuonano in un’immagine allo stesso tempo sonora e visiva, ricomponendo i propri frammenti in una narrazione fatta di azioni e concetti. Narrazione a suo modo cosmogonica dove il residuale rapporto tra uomo e natura negozia il proprio spettro di traccia, dove le spoglie, le scorie, le bucce delle reciproche identità sono eliminate, sottratte come accade appunto alla sintassi: «se il buttar via è la prima condizione indispensabile per essere, perché si è ciò che non si butta via», scrive Calvino, «il primo atto fisiologico e mentale, è il separare la parte di me che resta e la parte che devo lasciare che discenda in un al di là senza ritorno». Ecco, questo al di là senza ritorno, questo vuoto per sottrazione e deiezione, è lo spazio chiave di questa scrittura che aspira a farsi traccia, a dare illusione minerale alle sue aspirazioni umane. Lo stesso spazio, poi, che è invece recuperato, questa volta per addizione, dalla fotografia: lo spazio bianco del foglio con le sue tracce di inchiostro viene materialmente usato come pellicola da proiettare (inserito a forza nel porta pellicola dell’ingranditore fotografico), attraversato dalla luce insieme a tutti i suoi grovigli, grinze, ripiegamenti, trasformato concretamente in uno spazio vuoto per addensamento, per concentrazione, dove la traccia diviene oggetto, si mineralizza nell’evidenza fotografica. Questo è così lo spazio in cui alla traccia, per via fotografica o luminosa, vengono recuperate le scorie le spoglie e le bucce, dando però loro un significato non solo archeologico, ma riscoprendone la consistenza, almeno per la fotografia, di oggetti vivi. Del resto, «photographier n’est pas prendre le monde pour objet, mais le faire devenir objet», scrive Baudrillard – c’è sempre bisogno di una «interruption du sujet», perché nella fotografia si abbia una «irruption du monde», c’è sempre bisogno che il soggetto si spossessi di sé perché il mondo si lasci comprendere come mondo, ed è questo esercizio di spossessamento, qui portato tecnicamente all’estremo, la grande opportunità della fotografia: è nell’estraneità di questo spazio, che confina con la irresistibile tautologia cui rimanda l’oggetto, che a volte brilla la forza vitale dell’alterità.

icn03 copiaE con l’alterità si trova a fare i conti non solo l’icnologo-spettatore, ma anche l’elemento che fa da trait d’union, tecnico e tematico, dei tre dispositivi, la luce: nella scrittura motore della narrazione (l’opposizione con l’ombra, il diverso comportamento di uomo e lucertola nei suoi confronti); nella fotografia forza che recupera la consistenza della traccia (la proiezione che attraversa il foglio di carta); nel cristallo impulso che materialmente scolpisce la traccia (il fascio laser che incide l’immagine tridimensionale), la luce è la chiave per comprendere a fondo la scommessa di senso di Icnologia: un senso da recuperare non tanto dalla traccia, dal sedimento, dal rumore che ci avvolgono quotidianamente, ma da riscoprire nell’atto di far attraversare tutto ciò dalla forza luminosa di un’alterità, di farlo precedere dal conflitto o dall’incontro con quella luce, proiezione di un raggio non ancora cristallizzato. Sfida che non spinge l’icnologo-spettatore verso i tracciati angusti della propria identità, al contrario, lo mette di fronte alla possibilità dell’inaspettato, dell’impensato, alla reale estraneità di pensare il futuro. Chissà l’unico modo perché il suo io possa affrancarsi dai confini stretti di tutto ciò che lo abita, da quell’eteronomia mediale e sociale che lo pietrifica e lo rende traccia di se stesso.

Gian Maria Nerli