Andrea inglese

Lyn Hejinian, Un pensiero è la sposa di cosa pensare, traduzione di Gherardo Bortolotti, Marilena Renda, Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 41, € 3,00. Rachel Blau DuPlessis, Bozza 111: Arte Povera, traduzione di Renata Morresi, Arcipelago, 2012, pp. 27, € 3,00. Nathalie Quintane, La foresta dei vantaggi, traduzione di Michele Zaffarano, Arcipelago, 2012, pp. 37.

Il termine poesia suscita oggi un caratteristico fraintendimento. Per un certo numero di persone, maggioritario in Italia e probabilmente altrove, “poesia” designa ciò che del genere lirico novecentesco è ancora circolante innanzitutto come patrimonio da studiare e conservare, ma anche, seppure in misura ridotta, come eredità suscettibile di sviluppi non puramente epigonali. Una minoranza di persone, però, frequenta e concepisce il termine “poesia” in un modo assai diverso. Esse considerano la poesia non più come un genere letterario, codificato e condizionato storicamente, ma come una pratica di scrittura all’interno della quale si possa esplorare ed interrogare non solo la natura dei diversi generi letterari, ma della letteratura stessa. Rovesciando il noto pregiudizio che suole giustapporre “scrittori” e “poeti”, ossia professionisti che stanno nel mercato del libro e amatori senza le responsabilità della letteratura adulta, bisognerebbe cominciare a chiedersi se, oggi, non sia dalle parti di certa poesia che si ha ancora l’audacia di fare letteratura tout court. Tale domanda ha senso a patto di abbandonare alcuni feticci teorico-critici come quello della letterarietà. Come ci ricorda Jacques Rancière, il regime moderno e democratico della letteratura nasce proprio dall’instabilità costitutiva “tra il linguaggio dell’arte e quello della vita qualunque”. Il fatto che la scrittura poetica si situi da tempo ai margini del mercato editoriale, le consente almeno un vantaggio: essa vive al di fuori di tutta una serie di pressioni e di imperativi di adattamento. Lo stato di abbandono e sfacciata libertà in cui versa, le ha permesso non solo di consolare tanti narcisismi derelitti, ma di far nascere anche delle forme di scrittura che si pongono risolutamente alla frontiera tra il letterario e il non-letterario. Se queste forme sono ancora nominalmente riconducibili alla “poesia”, se ne distanziano radicalmente per strategie testuali, materiali, e procedimenti.

Chi volesse, oggi, esplorare da questa visuale la produzione non solo italiana ma anche francese e statunitense può fare affidamento sul tenace lavoro di apripista di due poeti e traduttori: Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano. Dal 2006, nella collana Chapbook da loro diretta per l’editore Arcipelago, hanno pubblicato 21 piccoli libri, che costituiscono un prezioso campione delle pratiche di scrittura nate nell’ambito della poesia a cavallo tra XX e XXI secolo. Tra i vari titoli usciti quest’anno, ne sceglierò tre che bene illustrano il discorso fatto finora. Uno è tratto dal panorama della poesia francese: La foresta dei vantaggi di Nathalie Quintane; gli altri due provengono da quello statunitense: Un pensiero è la sposa di cosa pensare di Lyn Hejinian e Bozza 111: arte povera di Rachel Blau DuPlessis. Hejinian e DuPlessis, entrambe del 1941, hanno come riferimento comune sia la stagione degli oggettivisti americani sia quella successiva della language poetry, che elaborano ognuna in modo peculiare anche attraverso riflessioni critico-teoriche. Quintane, nata nel 1964, contribuisce a partire dagli anni Novanta ad innovare la scena poetica postavanguardista, assieme ad autori quali Christophe Tarkos, Katalin Molnàr e Charles Pennequin. Il suo è un lavoro di radicale decostruzione dei generi mai fine a se stesso e che non si limita ad agire sul linguaggio in quanto tale, ma interviene sul discorso e le sue infinite nervature ideologiche: discorso narrativo, politico, di genere, d’attualità, dell’identità nazionale, ecc. Quintane scrive per lo più in prosa come Hejinian. In Un pensiero è la sposa di cosa pensare è cancellata ogni frontiera tra il saggio e il diario, tra la speculazione e la registrazione degli eventi quotidiani più elementari, in una sorta di eterna lotta tra senso e non-senso. In DuPlessis, invece, prevale la scrittura in versi, che si organizza secondo una strategia dell’inventario iniziata negli anni Ottanta e proseguita fino ad oggi attraverso una serie di opere che condividono tutte uno stesso vocabolo chiave: Drafts, ossia “schizzi”, “studi”, “abbozzi”. Riattualizzando la lezione di Ponge, DuPlessis fa della scrittura poetica questo laboratorio ininterrotto, e sempre provvisorio dell’espressione. Ciò che conta, allora, non è lo splendore dell’ordine formale, ma la tensione che si genera, ad ogni passo, tra l’armatura culturale e la nuda vita, tra i grandi significati sociali e l’opacità dei minimi fatti quotidiani.

[già in “alfabeta2”, n° 31, luglio-agosto 2013]