di Nadia Agustoni

Un libro, Per voce sola, di testi teatrali, quattro monologhi, con cui Maria Grazia Calandrone, affilando la sua poetica, sembra consegnare ad alcune voci femminili quell’ambiguità della memoria che si dà per frammenti, ritrazioni e dialoghi coi vuoti.

Se parlare è decidere la propria lingua e farla/farsi esistere, abbiamo in questi testi, nello stesso tempo, della parola e di più quando questa ci appare come ossessione, un silenzio che nasce dalla materia dei corpi offesi e riempie la scena. La scena è occupata da figure il cui darsi travalica il senso di differenza, diversità e identità, perché con uno spostamento radicale, fanno del palcoscenico il teatro della malattia.

La scrittrice Flannery O’Connor parlò della malattia come grazia e chissà se intendeva uno spazio tra il mondo e l’interiorità, un luogo in cui la parola non agisce che in minima parte. Leggendo Maria Grazia Calandrone, in queste pagine abitate dalla fragile presenza dell’io dei personaggi chiave, si ha la netta percezione che la loro malattia sia piena di vita, ma di una vita inafferrabile. La morte non occupa il loro pensiero, non direttamente, né il loro stare in una solitudine fatta di nomi ripetuti, vocio di morti o insorgenze la cui realtà è dubbia. Percepiamo un moto circoscritto di corpi e voci che afferrano quel che in loro si agita come in un limbo dove il presente è il passato o è un tempo che non conosciamo.

Le immagini, ossessivamente evocate da alcuni dei personaggi, sono figure delle loro radici, qualcosa da custodire in assenza. La mancanza assoluta non si dà comunque mai, il ricordo può ricreare sempre, al di là del male patito. Altre figure sembrano solo presidiare uno spazio assoluto tra il qui e una profondità che li ha travolti e li rende borderline.

Nel primo monologo lamammapiùbelladelmondo”, Annina, che il marito ridusse in coma a botte, al risveglio è incapace di intendere e volere, in verità non fa che desiderare la vicinanza con la propria bambina, Angela, data nel frattempo in adozione. Trent’anni non cancellano, né dalla voce né dagli occhi di Annina, l’immagine della figlia. Salvando questa immagine, Annina, salva il proprio mondo, nonostante la malattia.

Angela, che la incontrerà da adulta, ormai donna matura lei stessa, potrà cogliere nello sguardo della madre che non la riconosce e cerca ancora la bambina, proprio quell’amore che nell’imperfezione, nella fragilità di chi è stato ferito, reca il suo significato: una grandezza che tocca il corpo, i pensieri, le parole e non riconoscendo nient’altro che l’antico volto, della figlia, la innalza a voce nella propria voce. Angela accetta questa imperfezione dell’amare. Accoglie quel che è amoroso e buio, ma insieme luminoso. L’intercalare nel testo dialetto e lingua, rende, se è possibile, più materiche le presenze che nel loro essere insieme si fanno l’una e l’altra specchio. Abbiamo così una doppia lingua e il doppio dell’immagine, la donna-bambina, la madre-figlia, e la figlia-madre.

Se l’universo dell’autrice è inscritto nel segno di una femminilità complessa, tuttavia Calandrone sottopone qui la propria lingua poetica a uno spaesarsi e diradarsi, in un movimento che è ancora doppio, di esplosione e implosione, di parola e di silenzio.

E’ nel secondo monologo “pochi avvenimenti, felicità assoluta”, scritto per l’attrice Sonia Bergamasco, che questo si evidenza. La storia d’amore e musica tra Robert e Clara Schumann è tutta nella voce di lei. Lui, il musicista e creatore della musica, interloquisce solo con le ombre dei morti. Caduto nel pozzo nero di un femminile atavico e interiore, si consegna a un mutismo solo in apparenza sottratto alla furia.

Il suo stare con le ombre e i morti mette in scena un caos che non può più collegarsi ad alcunché.

Robert Schumann è più di uno solo, una sola personalità; l’immagine che il mondo aveva di lui, non poteva contenere tutta la sua vita, che Clara può solo declinare al plurale. “Tutto quello che sei, tutti quelli che sei…” (41).

La passione di vivere, anche quando l’oggetto d’amore è stato danneggiato, è accettazione di ciò che l’amore è: accogliere la nostra imperfezione. L’imperfezione e la fragilità dell’umano rendono tangibile l’amare, che è amare il mite, colui/colei che secondo il Vangelo erediteranno la terra. Amare il dolore di un altro/a è rovesciare lo status quo. Il doppio movimento irruenza/parola e silenzio/strazio è il segno più vero della mitezza, di tutto quello che è indifendibile.

Se Clara è figura di sapienza e potenza, Robert è l’ombrosità dei morti, il silente o quasi silente, i cui ricordi non trovano più spazio, se non in una profondità che deve rinunciare anche alla musica. La malattia è qui un teatro interiore dove la “grazia” ha già abbandonato il mondo, ma non il dolore. In quell’ultimo, intimo trattenersi, vi è il dono più grande di Robert a Clara. Non parole o note, ma una nudità in cui tutto ciò che è stato appartiene a entrambi, ma infine di più a lei che ne serberà l’interezza.

L’autrice, la cui voce nasce in poesia, lo ricordo, si pone nel segno di un sud materno, un sud spaccato in molte vite e in contraddizioni, ma solo apparenti. In questa misura senza misura, Calandrone, ci fa pensare a tanto del nostro teatro le cui figure femminili hanno spesso portato la pesantezza di una sensualità malvissuta nella drammaturgia del Novecento. Calandrone non ha però alcuna insistenza sullo strazio carnale, attinge sempre, anche aprendosi un varco linguistico coi dialetti o il latino, a un senso, che è certezza di un passaggio/scambio intuito (Teresa D’Avila) tra pelle e parola. Un doppio dirsi/darsi , dire/dare che si fa pensiero e voce, silenzio e coraggio. I disegni e le fotografie, sempre suoi, che inserisce tra i testi confermano questa impressione.

Nei due monologhi finali, “La scimmia bianca dei miracoli” e “Elle” il doppio movimento è confermato. La voce, il cui registro cambia all’improvviso, si pone in un lucido ripercorrere gli eventi e la propria storia, non per ricomporre, ma per appartenere, come ognuno appartiene a se stesso: da straniero.

Si spiega così l’inclusione di versi di altri poeti, tutte presenze femminili. Calandrone le chiama esplicitamente con i loro nomi, dando forma a un desiderio di avvicinamento mai scomparso dalla scrittura. Non è un dire “al femminile”, ma amare in un’altra parola.

 

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Maria Grazia Calandrone, Per voce sola

Quattro monologhi con 6 disegni e 10 fotografie

CD audio omaggio

ChiPiùNeArt Edizioni 2016. pp. 133