di Jean-Charles Vegliante

Philippe Denis, conosciuto direttamente da poco – in occasione della presentazione di un numero monografico che “L’étrangère” gli aveva dedicato la primavera scorsa, presso la libreria Le Bruit du temps di Antoine Jaccottet (Paris V) –, mi fa recapitare, dal Portogallo ove egli risiede ormai, un «piccolo libro» (scrive lui) curiosamente intitolato si cela peut s’appeler quelque chose (“se questo può chiamarsi qualcosa”, 65 p.), frase stampata tutta minuscola. I presenti appunti, di getto, riprendono semplicemente, ampliandolo, il biglietto di cortesia che gli ho mandato subito, e non hanno altra pretesa se non di ripetere tale cortesia di lettura, dovuta, a me pare, a ogni testo che ci tocca nel profondo. Tanto più in quanto la poesia, come sappiamo, ne ha davvero bisogno.

Quelle sobrie pagine stampate mi raggiungono dopo lungo periplo, dunque, mentre sto cercando, difficilmente, di stendere un articolo sul “realismo” in poesia (si legga il termine con doppie o triple virgolette), ricerca di cui – a me pare – a scapito delle apparenze (ma, si badi, qui la superficie È profondità!) le poesie di Philippe Denis vanno avvicinandosi oggi sempre di più. Ma, se si vuole, al modo in cui degli haiku potessero sembrare “realisti”: quasi per ossimoro quindi… come prospettando un mondo oltre la pagina stampata. Si tratta in ciò, per me, e solo in prima istanza, di semplici impressioni… ma da dove partire, se non si sappia dire altro[1] che l’effetto che la parola “fa” su di noi?

Intanto, sicuramente si cela peut s’appeler quelque chose è un gran bel titolo[2], ed esso potrebbe definire o indicare la poesia stessa, in un certo qual modo, compresa quella meno lirica dell’altero Mallarmé; il quale non mancava certamente di humour, tutt’altro, anzi avrebbe apprezzato, si creda, il Peto del cavallo che risveglia le lucciole! E ancora di più il “Raccoglitore di rape”. A proposito di cavalli, quanto opportuno il modo di dire italiano “dalle stelle alle stalle” (che si può anche invertire, alla bisogna, per una solenne delusione o scacco subito)! senza enfasi, come nella figura che gli inglesi chiamano bathos, una delle più difficili da usare, direi (molto più agevole il crescendo di un climax!), ma qui tranquillamente di casa. Realistico dunque, a me pare, per lo meno quanto uno schizzo del Pissarro rurale, questo simpatico

Raccoglitore di rape.

Con una rapa,

mi indica il cammino.

(p. 52)

Se questo può… sì certo, rifiuto ostinato per il poeta di «rendere un riflesso contabile di un altro riflesso», senza illusione militante; eppure, certuni non rimestano altro che segni (arbitrari), mentre altri – e qui ne abbiamo un’illustrazione lampante, credo – raggiungono nonostante tutto una forma di evidenza (e enérgeia) di “realismo” (con tanto di virgolette, siamo intesi, quante vorranno metterne gli specialisti): grazie alla quale, diceva Leopardi, da vecchi ci si possa almeno riscaldare leggendo le poesie scritte in gioventù. Vale a dire: solitudine assoluta davanti a quanto si scrive, e poi si cerca di stampare e comunicare, «se questo può chiamarsi un’opera».

L’alternarsi di aforismi, di notazioni quotidiane e di «verità ovvie» è in questo poeta (per lo meno in questa raccolta) convincente e affatto accattivante. Infatti, ci si chiede come «far entrare un nulla nel tutto» (e Dante, Paradiso II: sulla terra «non si concepe / com’una dimensione altra patio, / ch’esser convien se corpo in corpo repe»), e, alla bisogna, «passare un colpo di scopa sotto le proprie frasi» ? O, detto altrimenti: come scavare al di là del segno linguistico, per l’appunto (e in italiano, Zanzotto interrogava fino al grafema), per esempio in questo: «N u a g e – mot sans gêne», non a caso quasi intraducibile [N u v o l a – parola senza velo]? Oppure: come fare in questa lingua qua, degli haiku o schizzi così minuti e precisi: tali nella sezione «io & Issa» (e so che egli ha tradotto Masaoka), ove viene rispettata pure la carta dello sfondo – financo il cielo finto, il vuoto tra «i fiori, fermi sulla carta da parati» ?

Ora, mi accorgo di attingere forse troppo alle mie fonti o riferimenti familiari, quasi sempre italiani, e chiedo venia – ma Philippe Denis legge la nostra poesia, anche se potremmo invocare pure (tanto per rimanere in campo traduttivo) la verticalità radicale di una Emily Dickinson, che lui ben conosce, e qualche altro nome ancora, giapponese ad esempio. Ma sempre, in qualche modo, della poesia che “fa”. Come la sua propria: «Prendere il polso della realtà, / quale avventura!». E, alla fine ecco «… un libro di cui non mi resta che da assemblare le vertebre, / e di cui scimmiotto, sul mio tavolino, le reptazioni.» (p. 61).

La semantica minuziosa, connotata essa pure da un reale attraversato – altrove mi è capitato di dire, con Sereni, Fortini o Raboni, reale abitato –, fa emergere lo sfondo non finto, questa volta, delle vere referenze extra-testuali intime e non. Così, mettiamo, a proposito di quel «rabiot» [avanzo del rancio], da un gergo militare (stavo per dire marmittone o fantaccino); e in certi internati liceali, si sentono delle vere sommosse al grido di «du rab! du rab!» – che se ne vorrebbe avere sempre di più, beninteso. E così pure della “vita”… Ma quei tempi son passati, adesso i ragazzini fanno baccano nelle mense a colpi di yogurt e sputano nei vassoi (e, si badi, penso mentre scrivo questo che oggi farei la stessa cosa anch’io, probabilmente). Che vale, lontani dalle campagne, «la sbobba che essi si dividono»? Non va da sé lo sperare, in «anni della sconfitta» (Fortini). La poesia medesima è poca cosa, ma rimane pur sempre magari ciò che consente un riscatto; nel caso, senza nostalgia alcuna. Né compensazione (vorrei evocare, all’insegna dei famosi trilli sweet sweet, un ultimo nome italiano, quello del Pascoli ovviamente) o consolazione, né sicurezza mai:

Le rondini falciano.

Nessun interessamento,

i covoni non saranno legati.

(p. 27)

Il libro di Philippe Denis invita soltanto a fare un piccolo passo avanti, di nuovo, in direzione di quella «presenza» cara a Bonnefoy, il poeta che benevolo ne aveva seguito il debutto. E ritrova da subito, nell’essenzialità, quel dettato icastico e raro che ci fece amare il suo giovanile Quaderno d’ombre. Di cui proponiamo ancora, per non concludere, una breve sezione, ricca – ce ne accorgiamo oggi – di risvolti e svolgimenti futuri:

 

             Il lavoro la pietà

 

Gridiamo in parole che il verbo

raggiunge.

 

(il vento taglia attraverso i campi

 

Fronte delle greggi

cola

in lenti cammini di montagna…

 

Non c’è altra aria, che questa –

che punteggia

l’abbozzo d’un respiro,

succede

al vento –

ove mi ostino a parlare.

 

 

A sud dello smarrimento

(come qui,

nel nullo mondo

 

… sono esausto

nella mia parola –

 

Schiuma esplosiva,

mi trafigge l’alternanza

ove devo tener conto dello scoglio:

ardente lampada

di questa notte.

 

 

Scaglia contro scaglia,

il cielo –

come ridai

vita

a questo termine,

 

come mi sveglio

per il menomo.

 

La terra

mutata in noi stessi

funge da tutto.

 

 

Non per una parola,

per niente,

siamo venuti

con la nostra lingua di forestieri…

 

ma grida il cuore,

nevaio

– con te –

di quel silenzio.

 

(Il vento vacante

è così suscettibile come il sangue,

senza lo slancio

d’un’offesa.

 

 

Per la ferita

ciò che ci concede all’ignoto –

 

Io dimoro

senza sonno – come lampada

che ha l’età

di questo versante –

 

La neve mi adopera

nella notte – per ritrovare

il proprio biancore

sull’orlo

della lingua.

 

 

Sulla rossa fedeltà dei sangui,

naviga

per i timori –

il porto è la luce

di qua dalla morte,

il vento:

questa frescura d’ottobre

che lavora il legno

dei futuri.

 

(Ampie stirpi,

di tutto ciò che lotta,

cieco di speranza)

 

(da: Cahier d’ombres, 1974)

 

 

Jean-Charles Vegliante

[1] Diciamo meglio, ne conoscevo solo pochi capitoli dell’antico Cahier d’ombres, tradotti in italiano per il sito di « Nuovi Argomenti » [v.  http://www.nuoviargomenti.net/poesie/quaderno-dombre/ ]. Comunque, la presente Nota passa per il filtro della traduzione, senza altre pretese: anche se questa – come ho scritto fin troppo spesso in altra sede – è anche strumento critico, e una forma di iperlettura

[2] Questa parte riprende liberamente un intervento precedentemente pubblicato su La Revue des Belles Lettres, che qui si ringrazia.